Get Back
Peter Jackson realizza uno straordinario documentario musicale sui Beatles che entusiasma gli animi degli appassionati e offre spunti di riflessione sul concetto di costruzione delle storie
Ci sono storie che sembrano non stancarci mai. A distanza di anni, decenni, secoli, queste continuano a riemergere nel discorso e nell’immaginario collettivo come eventi mai veramente conclusi o definiti nella loro interezza. In breve, non cessano di parlarci, o, nel caso dei Beatles, di suonare e cantare per noi. L’arrivo sulla piattaforma Disney Plus dell’incredibile documentario di Peter Jackson, Get Back, sulla lavorazione dell’album Let It Be, ha generato a fine novembre scorso un interesse proporzionato alla grandezza insita nel progetto: a partire dalle 56 ore di filmato inedito relative alla produzione dell’ultimo film dei Beatles (Let It Be, 1969) il regista neozelandese ha scelto e montato più di 8 ore divise per tre episodi. Non solo; ha operato uno straordinario lavoro di restauro visivo e sonoro e tramite una serie di algoritmi ha riempito, ripulito e integrato le immagini, le voci e la musica. Il risultato finale è una sorta di surreale e irresistibile viaggio nel tempo, poiché tutto ciò che si vede e si sente in Get Back ha il sapore di qualcosa fatto l’altro ieri. Dato fondamentale non solo per la questione tecnica ma anche per il concetto alla base del documentario: ricostruire e far riemergere una storia sulla quale moltissimi appassionati continuano a interrogarsi. La domanda è: che tipo di storia raccontare? Spiegare perché i Beatles si sono lasciati? O c’è qualcos’altro da rivelare, rimasto nascosto nelle immagini di cinquant’anni fa?
La cosa interessante è che nel documentario questa ricerca si ripropone, come in un gioco di scatole cinesi, dal regista del film originale Michael Lindsay-Hogg, che si chiede che tipo di film girare, agli stessi Beatles che si domandano cosa stanno facendo – un album, un live show, un programma televisivo? – e a che punto stanno. Siamo nel gennaio 1969 e le cose si stanno facendo difficili per i quattro musicisti. John Lennon è preso dalla relazione con Yoko Ono e dall’eroina, ed è reduce da un brutto periodo - è stato arrestato per droga e la sua compagna ha avuto un aborto spontaneo – ; George Harrison soffre il rapporto di minoranza nel gruppo, mentre Paul McCartney cerca disperatamente di riempire il vuoto lasciato dalla morte del loro manager Brian Epstein assumendo il ruolo di capo, con molte reazioni negative da parte degli altri componenti. Nel film del 1969, cosi cupo e dalle immagini sgranate, sembrava quasi inevitabile la rottura, insormontabili le distanze. Ma con Get Back vediamo come il concetto tecnologico di realtà aumentata si associ alla presenza di dati aggiuntivi che si concretizzano anche narrativamente nella complessità della storia presentata. La lunghezza del documentario permette di scivolare in una visione prolungata di conversazioni, battute, gli intermezzi offerti dalle sigarette, dal cibo, dalla lettura dei giornali, con un effetto di immersione nella quotidianità dei Beatles quasi da farci spettatori di uno straordinario Grande Fratello.
Jackson si concede il tempo di soffermarsi sui primi piani, le emozioni che risalgono in superficie e con esse le personalità distinte dei quattro artisti. La pacata ribellione di George, l’allegra disponibilità di Ringo, l’ironia distante di John, il prepotente amore di Paul per il gruppo: benché consapevoli e in un certo senso bloccati dalla presenza costante delle telecamere, i Beatles non possono esimersi dal rivelarsi in un paio di occhi lucidi, un perfetto sguardo di intesa durante una canzone, la complicità nello scherzo. Parallelamente si svolge un estenuante lavoro di creazione musicale, un perenne brainstorming su come suonare e cosa scrivere, che fa eco alla ricerca di un finale per un film con le più svariate proposte di location adatte. È strano come le cose, che una volta concluse ci sembrano inevitabili nella loro forma, nascondano un lungo periodo di evoluzione attraverso più stati; Get Back sembra dire che a volte il tempo, come diceva Let It Be, sa dare le sue risposte. Il senso della storia che i Beatles stavano raccontando nel gennaio del 1969 è ora più chiaro: sappiamo che quelle canzoni comporranno l’ultimo album edito - anche se torneranno in studio per produrre Abbey Road – e sappiamo che la meta finale di quelle riprese non può che essere un tetto divenuto iconico per il concerto che si tenne sopra.
D’altra parte parliamo del finale cinematografico perfetto. Il gruppo musicale più famoso del decennio che dopo tre anni di assenza dal palcoscenico sorprende una Londra infreddolita con il suono delle canzoni del suo nuovo album, l’arrivo dei poliziotti che in un teso montaggio alternato produce l’eccitazione di un possibile climax esplosivo, le persone in strada ferme con il naso all’insù: il flusso di coscienza delle riprese e le caotiche jam session musicali si concretizzano in una storia coerente, struggente ed emozionante che sembra acquistare senso solo decenni dopo la sua realizzazione. Ma in realtà, più che offrire completezza, Get Back aumenta il desiderio di tornare a immergersi nell’arte dei Beatles, perché questa riesce ancora ad apparire nuova come le immagini di un passato che continua suo malgrado a rivivere nel presente.