Pinocchio
Robert Zemeckis rivisita in live action il classico Disney del 1940, mantenendone la struttura infondendovi gli elementi del proprio cinema.
«Chissà come sarebbe ora», si chiede il Geppetto interpretato da Tom Hanks, guardando la fotografia del figlio scomparso da cui trae ispirazione per creare Pinocchio. È anche una delle domande connaturate nelle riedizioni in live action dei Classici Disney, così come più in generale nella pratica dei remake e dei nuovi adattamenti. Una volontà, persino un istinto, di dare nuova vita, di reimmaginare, talvolta di ripensare, racconti e opere audiovisive che appartengono all'immaginario collettivo con gli occhi del presente. Ma se in molti (spesso deludenti) casi uno dei problemi consiste proprio nel non saper discernere, riflettere e confrontarsi con quella pulsione, il Pinocchio di Robert Zemeckis (anche co-sceneggiatore e produttore) parte di fatto da lì e da quella consapevolezza. Il film si apre con un dialogo tra i due livelli del racconto, stabilendo un legame tra presente e passato, che si trovano interconnessi, compresenti e si dispiegano allo spettatore in un unico orizzonte. C'è poi l'ingresso in scena di un Geppetto che ha perso anni addietro la moglie e un figlio piccolo, ed è soprattutto dal senso di perdita che, in questo caso, nasce il desiderio di costruire il burattino.
L'atto della creazione si presenta come il tentativo di colmare il vuoto che lo attanaglia, in una indagine (quella sul vuoto) che ricorre spesso nella filmografia di Zemeckis. È così che prende vita Pinocchio, con un incantesimo che si origina dal desiderio e che passa attraverso la fotografia del figlio perduto, transfert fenomenico per il compimento del miracolo. L'immagine dona dunque nuova vita e il passato si rimodella e riaffiora nel presente, in quella che sembra quasi un'applicazione della teoria della "sopravvivenza" (Nachleben) di Aby Warburg, con cui lo studioso di Amburgo definiva la concezione di memoria delle immagini e la loro peculiarità di perdurare e rinnovarsi nel tempo. In questo caso l'immagine di Pinocchio, il burattino, è memore di quella del bambino, mentre l'immagine di Pinocchio, il film, è memore dell'originale d'animazione Disney del 1940, di cui recupera il protagonista dalla forma cartoonesca per reinserirlo nella realtà e in un contesto sociale visto con lo sguardo e la percezione del presente.
Zemeckis si attiene piuttosto fedelmente al film animato, ma le lievi discordanze, percepite dai più come irrilevanti o come frutto della politica disneyana, rivelano una forte coerenza e una chiara identità, manifestandosi sin dai primi minuti (come abbiamo visto in precedenza) e ponendosi in linea con la filmografia del regista. Il suo è un cinema che da sempre riflette sul ruolo delle immagini e sulla rappresentazione, un cinema mosso dal sogno e dalla magia del tempo, in equilibrio tra la realtà e la sua figurazione (esibita e mai celata). Pinocchio sembra colmarsi della visione di Zemeckis, che attraverso le peripezie del racconto osserva il rapporto tra il personaggio e il mondo che lo circonda, in un tourbillon soverchiante scatenato dal desiderio e dallo sguardo verso il cielo. È un viaggio nello spazio ma soprattutto tra le pieghe del tempo, simulacro del fantastico e del mistero, scandito dalla presenza degli orologi. Orologi che danzano e si animano, come quelli nella bottega di Geppetto con i personaggi Disney (sempre a proposito di immagini che riaffiorano) che si fermano improvvisamente al tocco della magia o che vanno in frantumi nel Paese dei balocchi. L'alterazione temporale ritorna spesso nel racconto zemeckesiano e si pone come un'apertura su una dimensione che oltrepassa il reale modificandone le traiettorie, così come avviene nel sogno e nel cinema stesso. Pensiamo alla trilogia di Ritorno al futuro, ma anche alla percezione del tempo in Contact e in A Christmas Carol. Lo stupore di Ebenezer Scrooge il giorno di Natale nell'apprendere che è trascorsa una sola notte è lo stesso del mondo intero quando l'astronoma Ellie Arroway racconta il proprio viaggio, così come di Geppetto quando Pinocchio gli rivela ciò che ha fatto in appena un giorno.
Tanto la riflessione sull'immagine quanto quella sul tempo connotano un cinema perennemente focalizzato sul concetto di metamorfosi, che si racchiude attorno ai personaggi e al loro percorso. Anche per questo motivo l'approdo alla favola di Carlo Collodi (seppur indirettamente) appare un naturale prosieguo. Da La morte ti fa bella a Le streghe (tratto dall'omonimo romanzo di Roald Dahl), Zemeckis contrappone a un senso più classico di metamorfosi, dalla valenza punitiva e morale (i personaggi di Meryl Streep e Goldie Hawn, le streghe e i bambini nel Paese dei balocchi), uno completamente antitetico relativo alla presa di coscienza. Non è la forma a definire l'individuo, e quindi a dover essere combattuta e a necessitare di un ritorno a un ipotetico ordine costituito, bensì l'identità che ne prescinde. Il cammino di Pinocchio, cacciato da scuola in quanto burattino, prosegue verso la consapevolezza che per diventare "vero" non serva una trasformazione ulteriore. L'umanità e la coscienza di sé rimangono intatte anche sotto forma di "bambino" di legno, di topo (nel racconto di Dahl) o persino di insetto (come in Kafka), alimentate dal contatto con gli altri che, come si sente dire Ellie in Contact, è l'unica cosa che ci aiuta a sopportare il vuoto e la solitudine.