Succession
Vincitrice agli ultimi Golden Globe, la nuova serie HBO si traveste da “prestige drama” ma ha un cuore da comedy satirica che affonda la lama dell’analisi sociale e antropologica in un mondo di privilegiati.
Immaginate una serie sul capitalismo, fatta di tutte persone bianche e ricche che parlano di finanza e che, sorprendentemente, fa ridere come poche altre cose al momento in televisione. Sembra impossibile, perché sulla carta dal punto di vista del plot Succession è il classico prestige drama che racconta il dramma di una famiglia dalla struttura fortemente piramidale, il cui patriarca è nella fase calante sia del suo impegno professionale che della sua esistenza, dando così il via alla successione. Nel passaggio dalla teoria alla pratica però, la serie trasmessa da HBO si dimostra uno dei prodotti più divertenti degli ultimi anni, senza per questo togliere nulla alla profondità tragica che viene messa in scena, anzi esaltandola grazie a una varietà di registri che lascia stupefatti.
Non si tratta di una sola caratteristica, non c’è una peculiarità specifica che fa di Succession uno show così interessante e così unico nel panorama contemporaneo, ma di un crogiolo di qualità che si incrociano tra loro in maniera perfetta e che danno vita a qualcosa di insolito e in grado di piacere a tutti nonostante un tema di partenza abbastanza ostico. Innanzitutto c’è il talento dello showrunner Jesse Armstrong, sceneggiatore che ha all’attivo produzioni di qualità e molto acute come The Thick of It e che qui riesce a intrecciare i conflitti familiari con una riflessione sul capitalismo estremamente pregnante, senza che nessuno di due prevalga sull’altro ma facendo in modo che i due livelli si alimentino a vicenda. Il tutto è realizzato adottando un registro che fonde un’attitudine da documentario volta a riportare in superficie le principali disfunzionalità del mondo della finanza con uno spirito quasi satirico, che nella realizzazione di ritratti esagerati (ma non troppo) affonda la lama dell’analisi sociale e antropologica di un mondo di privilegiati che si stanno mangiando il pianeta (e in questa scelta è facile ritrovare il peso di Will Ferrell e Adam McKay, tra i produttori esecutivi della serie).
La complessità narrativa di Succession è amplificata da un cast che dimostra di aver capito perfettamente il senso dell’operazione e che in due stagioni ha saputo interpretare un gruppo di personaggi disperati, cinici, autoironici, dispotici, vendicativi, tragici e violenti con un’intensità e una credibilità che raramente si vedono in televisione. Brian Cox è la star della serie, un corpo attoriale iconico che veste i panni di questa sorta di Rupert Murdoch finzionale facendone emergere tutta l’arroganza, incarnando il simbolo di una generazione di conquistatori che hanno prosperato in un mondo in cui se partivi con buone basi economiche e avevi la voglia di affermarti potevi diventare un dominatore, e che oggi non hanno alcuna intenzione di lasciare il loro trono a figli e nipoti (in senso generazionale, i loro discendenti biologici sono milionari) sempre più in difficoltà.
Jeremy Strong interpreta Kendall, non il figlio maggiore ma quello che si dimostra fin da subito più dotato, più portato a ricevere la legacy del padre perché maschio e perché più inquadrato degli altri, destinato a prendere le redini della famiglia ma anche torturato da questo scenario e quindi sopraffatto da pressioni indicibili, oltre che dalle cattiverie che quotidianamente subisce dal padre.
Uno dei personaggi più originali è Roman , figlio minore della famiglia splendidamente interpretato da Kieran Culkin. L’eccentrico attore offre una performance strepitosa, nella quale inserisce probabilmente anche una nota biografica in quanto non certo il più famoso dei fratelli Culkin, almeno fino a un po’ di tempo fa. Roman infatti è il meno considerato dei personaggi per quanto riguarda le vicende di tipo ereditario, è lo scapestrato della famiglia, ma anche il simbolo che le pecore nere non esistono ma vengono create in quel perverso e tossico laboratorio che è la famiglia, in cui le pressioni dei padri ricadono sui figli con effetti disastrosi e ciascun carattere reagisce a proprio modo per difendersi, che sia essendo iper performativi o mandando in vacca tutto. La sua “follia” è un aspetto molto importante di Succession, perché nonostante a prima vista il suo personaggio possa sembrare troppo sopra le righe rispetto agli altri, quell’attitudine finisce per essere uno degli elementi più realistici del racconto, perché dietro alle situazioni comiche di cui Roman è protagonista si nasconde una persona in costante sofferenza e incredibilmente frustrata.
Il personaggio più interessante, però, è probabilmente Siobhan (Sarah Snook), unica figlia femmina della famiglia, donna dall’ostinazione inesauribile, intelligente ed estremamente furba che, crescendo in un mondo di maschi rapaci, ha dovuto costruire attorno a se una corazza fatta di doppio gioco, obiettivi chiari e armi affilate di ogni genere. Il suo è uno dei personaggi femminili più complessi degli ultimi anni, una donna capace intelligente e consapevole delle difficoltà di affermarsi in un contesto sessista e misogino, ma anche certa del proprio valore e determinata da asfaltare tutti per raggiungere i propri obiettivi, tanto da relegare a una posizione di totale subordinazione tutto ciò che pertiene alla sfera affettiva.
Pur volendo parlare esplicitamente al pubblico di HBO (e in Italia di Sky Atlantic) abituato alle serie “di qualità” che assomigliano al cinema, Succession è uno show che solo in superficie ha queste sembianze, che si traveste da prestige drama in maniera ingannevole per poi rivelare la sua natura di comedy satirica, perfetta per mettere in evidenza la volgarità e la violenza di un certo tipo di persone, il loro privilegio e la cattiveria di determinati comportamenti, con un linguaggio che spesso ricorda molto di più The Office o Parks and Recreation che True Detective.