Armaggedon Time
Un viaggio dolente nel passato, tra i luoghi e i sentimenti dell'infanzia, con cui Gray racconta un'apocalisse epocale e personale.
Dalle inaccessibili profondità dello spazio sondate in Ad Astra - dopo essere passati per il cuore inesplorato della foresta amazzonica in Civiltà perduta - al natio e familiare Queens di Armageddon Time. Dall'avventura odisseica, elegiaca e ossessiva all'intimità domestica del racconto di formazione. Il cinema di James Gray abbraccia gli estremi opposti cogliendone il punto di congiunzione, valicando i generi e portando il noto a specchiarsi nell'ignoto. Un cinema trascendente e tormentato, che prende le forme di un persistente viaggio interiore, delineato di film in film da un fil rouge ineludibile. Al centro di tutto per il regista newyorchese c'è infatti la famiglia. Famiglie in disfacimento, famiglie che tentano di riunirsi, rapporti fraterni, uomini in cerca di redenzione e in lotta con l'inestricabile destino, richiamando quel conflitto tra idealismo ed esistenzialismo che anima il cinema di Michael Mann. Ma è soprattutto il rapporto tra figlio e genitori a ricorrere spesse volte e a rappresentare il cuore del discorso filmico, con elementi autobiografici che affiorano come pezzi di un puzzle ogni volta rimescolati. Un rapporto che diviene centrale sin dal primo film, Little Odessa, esplicitato dal personaggio del padre dei protagonisti che ne sottolinea l'evolversi nel tempo attraverso le fasi di crescita. Da quella riflessione, Gray ritorna sul tema con sguardo prismatico, affrontandone le complessità dall'adolescenza all'età adulta, alla ricerca di una maggor intima comprensione.
"Mi vedo dall'esterno, mentre cerco una via d'uscita", dice Roy McBride in Ad Astra. Ed è come se James Gray facesse lo stesso attraverso il cinema, osservandosi, guardando il passato e ripensandolo, dando corpo e materialità ai suoi fantasmi. Con Armageddon Time, il suo film più dichiaratamente personale, quello sguardo arriva a concretizzarsi e il regista porta alla luce quel passato che è sempre stato una costante, in un cinema spesso custode di una pulsione retrospettiva e che è «il portato di un ricordo e un tramite di memoria», come scrisse Roberto Manassero. "Ricorda il passato" è proprio una delle frasi che il nonno (interpretato da Anthony Hopkins) ripete con fervore a Paul, l'alter ego preadolescenziale del regista. E Gray ricorda. Ricorda il Queens in cui è cresciuto, ricorda la famiglia e le proprie indelebili origini, gli anni di scuola e le prime amicizie. Ricorda le liti con il fratello più grande, le figure imprescindibili dei nonni, in special modo quello materno, e il sogno di diventare un artista. Ricorda anche e soprattutto, come accennato, l'evolversi del rapporto con i genitori, che diviene sempre più conflittuale, mutevole, tormentato. È un ritorno a casa, un viaggio diametralmente opposto a quello compiuto in Civiltà perduta e Ad Astra (e non solo), ma nel contempo conseguente ed epigonico all'inabissamento nell'ossessione (dei personaggi e dello stesso Gray) e alla ricerca della balena bianca di un cinema che spesso si è avvicinato a Melville e Conrad.
Sullo sfondo di Armageddon Time, Gray ritrae gli Stati Uniti degli anni '80, il periodo della sua giovinezza e del profondo cambiamento che ha segnato il paese. Sono gli anni della ripresa della Guerra Fredda, del riaffacciarsi della minaccia nucleare e dell'avvento di Ronald Reagan. Anni attraversati da una trasversale instabilità e da un divario sociale crescente. Questa visione del mondo e lo scenario politico si riflettono nel privato di Paul e delineano gli irrequieti rapporti famigliari e amicali, in cui trapelano incomprensioni, ingiustizia e persino violenza. Le divise di scuola tutte uguali e i compiti vincolanti diventano così per il protagonista una morsa conformistica e una costrizione soffocante, che ravvisa anche da parte della famiglia stessa. Un senso di oppressione che lo porta a reagire con irriverenza e a combinarne di tutti i colori - faire les quatre cents coups, direbbero in Francia, e l'omonimo film di Truffaut è stata proprio una delle ispirazioni di Gray. Eppure Armageddon Time non cade mai in un approccio nostalgico e non si ammanta di una visione assolutoria. È pervaso, al contrario, da un sentore di amara disillusione, e a dare origine al racconto e alle immagini è quell'osservazione di sé accennata poc'anzi, attraverso cui il regista si ripensa con dolente malinconia, rivivendo emozioni, attimi, rapporti, sbagli con lo sguardo del presente. Uno sguardo che accompagna quello del Gray preadolescente e che in alcuni istanti si rivela con lievi movimenti di macchina, in uno scollamento tra i punti di vista. Come ad esempio la fugace carrellata all'indietro ad allontanarsi dalla madre e dal nonno che ballano in cucina, quasi a esprimere la distanza nel tempo e il rammarico per quei dolci momenti ormai svaniti tra i ricordi, o il movimento che va ad anticipare e a guidare lo sguardo di Paul, focalizzandosi sull'adesivo rimasto nel giardino come traccia del passaggio del suo amico Johnny.
I toni crepuscolari della fine di un'epoca, della giovinezza, di alcuni ideali e dell'amicizia tra Paul e Johnny, resa impossibile dal classismo e dalle ingiustizie razziali di quel mondo, sono accentuati dai colori autunnali di cui si tinge l'intero film, tanto negli ambienti interni quanto negli esterni. Il cromatismo ha una valenza ricorrente in Armageddon Time, in riferimento al legame tra colori ed emozioni, menzionato più di una volta da una delle insegnanti, e soprattutto con il rimando alla figura di Vasilij Kandinskij, che nel 1913 scrisse un testo intitolato proprio Sguardi sul passato, in cui il pittore riflette su di sé raccontando il percorso di consapevolezza e di iniziazione all'arte (un viaggio interiore e nel passato non così dissimile da quello compiuto da Gray). Di fronte a una delle opere di Kandinskij, Paul viene colto quasi da sindrome di Stendhal, inabissandosi tra i colori e le forme del quadro in un'esperienza onirica. L'astrazione a cui spesso tende il cinema di Gray (vedasi Ad Astra) rivive negli accenni all'astrattismo pittorico, che diventa persino rappresentativo di un protagonista che "non vive nella realtà" e che cerca di sfuggire la rappresentazione del mondo che lo circonda, in un film che narra quella che in fin dei conti si rivela essere un'apocalisse personale.