Ozark
Tra crime e family drama la serie originale Netflix con Jason Bateman aggiorna un modello ben consolidato, tornando a parlare del lato oscuro della famiglia americana.
Era il 2008 quando Breaking Bad rivoluzionava definitivamente la serialità televisiva scardinando l'istituzione famigliare e guardando dritto negli occhi l'oscurità nascosta dietro l'ipocrisia del sogno americano.
Dieci anni dopo, nell'America di Trump post crisi economica, si intravede ancora il fantasma di Walter White aleggiare nell'apparente tranquillità provinciale di Ozark, epopea famigliare dall'anima crime che si pone come inevitabile (e per molti versi degno) erede dello show creato da Vince Gilligan.
Certo, non è un'eredità da poco quella raccolta dalla serie creata da Bill Dubuque e Mark Williams, un passaggio di testimone che però non ha la presunzione di confrontarsi con il passato, preferendo piuttosto battere altre strade, esplorare nuove dinamiche, scoprire nuove realtà.
Perché se è vero che Ozark, con la sua parabola di quotidianità criminale e ambiguità morale, occupa proprio quello spazio lasciato vuoto dal cult di Gilligan, è anche vero che è una propria identità, chiara e ben definita, quella che questo prodotto originale Netflix cerca, episodio dopo episodio, di guadagnarsi, allontanandosi, a volte anche drasticamente, da qualsiasi forzato e fuorviante paragone.
Del resto, i tempi sono cambiati, e mentre il denaro si conferma l'unica vera unità di misura dell'esistenza (illuminante il monologo iniziale del protagonista), il mondo è diventato sempre più smaliziato, più cinico, più ambiguo. È qui che Marty Byrde – il volto e l'aspetto di un perfetto Jason Bateman, anche regista di alcuni episodi – operatore finanziario e riciclatore di denaro sporco per un cartello messicano, costretto, pistola alla testa, a spostare l'attività (e l'intera famiglia) da Chicago a una sperduta località turistica nelle Ozark del Missouri, si fa emblema di un sistema che lucra sul crimine restando pulito, senza sensi di colpa, mantenendo – o cercando di mantenere – intatta la propria integrità morale e il proprio equilibrio famigliare.
Proprio la famiglia, d'altronde, è il punto cardine dell'intera vicenda, una famiglia non più da tenere all'oscuro e da vedere come principale ostacolo alla propria ascesa criminale, ma un nucleo da tenere stretto, da coinvolgere, da rendere complice, mentre tutt'attorno i principi etici e morali (compresi quelli dello spettatore) si sfaldano e la linea di demarcazione tra bene e male diventa sempre più labile e indefinita.
Un'ascesa criminale vissuta come sopravvivenza, come lotta per la vita, quella di Ozark, un alibi che i coniugi Byrde (a fianco di Marty la moglie Wendy, interpretata da una bravissima Laura Linney, che con il proseguire della serie si fa vera e propria coprotagonista) impareranno presto a raccontarsi per dormire la notte, vittime di un'ipocrisia di cui sono estremamente consapevoli.
Un dramma violento, cupo e brutale – tra spietati sicari messicani, redneck pronti a tutto e politici privi di scrupoli – dove la parabola criminale, però, acquista tinte inedite, lontana tanto dai picchi stilistico-espressivi di Breaking Bad, quanto dal gusto per il grottesco di Fargo, fedele a un realismo che si rispecchia nel volto calmo, bonario e ragionevole di Bateman, corpo immutabile votato al calcolo e all'apparenza, incurante di un intero mondo che si sfascia sotto il peso delle sue azioni.
Nel giro di due stagioni Ozark si dimostra così una serie sorprendente, a tratti imprevedibile, ma non per questo vittima di facili sensazionalismi o abusati cliffhanger, forte di una scrittura rigorosa dal ritmo implacabile e di un senso corale garantito da interpreti di alto livello (assieme a Bateman e alla Linney, la giovane Julia Garner, alla sua definitiva consacrazione), confermandosi, paradossalmente, nella sua pur poca originalità, uno dei più intelligenti e interessanti prodotti originali Netflix, e non solo.