The Politician
Ryan Murphy inaugura il suo storico accordo di esclusiva su Netflix e firma un’allegoria barocca della politica americana. Tra auto-citazioni e attualità, serio e faceto si alternano in un mix seriale riuscito a metà.
Nel mondo delle serie tv sono pochi gli showrunner conosciuti dal grande pubblico, e uno di questi è certamente Ryan Murphy, attivo dai primi anni Duemila con Popular e Nip/Tuck e creatore, tra le tante cose, di Glee, American Horror Story, American Crime Story, Feud e Pose. Il suo è un curriculum ventennale impressionante, e lo sa bene Netflix, che sempre più affamata di contenuti originali di qualità ha blindato l’autore con un contratto che non ha precedenti nel mercato seriale americano, offrendo 300 milioni di dollari per cinque anni di lavoro in esclusiva. Il primo prodotto di questa collaborazione è The Politician, serie in nove episodi sulla corsa alla Casa Bianca intrapresa dal giovane Payton Hobart (Ben Platt). Un’impresa che parte dalle imminenti elezioni per diventare il rappresentante degli studenti della sua scuola. Perché è così importante vincerle? Perché bisogna vincere tutto quello che c’è da vincere, scegliere le persone giuste, frequentare le migliori scuole senza commettere nessun passo falso.
Nella prima scena della prima stagione Payton ci dice tutto quello che c’è da sapere su di lui, compreso il suo piano per diventare presidente ricalcando le orme di chi ha occupato lo studio ovale da Reagan in poi: Payton è stato adottato, non ha mai conosciuto la sua madre biologica ma ha una madre adottiva (Gwyneth Paltrow) dolce e incoraggiante, viene da una famiglia molto ricca e sa bene che per diventare Presidente non bisogna sbagliare una mossa, mai. E infatti Payton non lascia nulla al caso e ha già un team che lo segue, pronto a occupare assieme a lui la West Wing: i suoi spin doctors James (Theo Germaine) e McAfee (Laura Dreyfuss), e una First Lady, Alice (Julia Schlaepfer), la sua innamoratissima Lady Macbeth.
Ma l’ambizione di Payton si va subito a scontrare con un dato di realtà: in lui mancano totalmente empatia e carisma, caratteristiche che abbondano invece in River Barkley (David Corenswet), il suo rivale nella competizione elettorale nonché amante segreto. Il personaggio di River somiglia molto a John John Kennedy, l’unico figlio maschio di JFK, e come lui soffre di una profonda infelicità che nemmeno il denaro, la popolarità e lo straordinario patrimonio genetico riescono a colmare. Del resto, nel corso della prima puntata River si suicida davanti agli occhi di Payton, sparandosi alla tempia con una rivoltella, e da qui arriva la prima e forse più eclatante lacuna di The Politician: il suicidio di River non viene mai elaborato né all’interno della serie né dai suoi personaggi. L‘evento che segna la vita dei protagonisti e l’andamento della vicenda viene lasciato sullo sfondo, come se il personaggio di River si fosse preso un anno sabbatico.
Dopo la morte di River i giochi per l’elezione a Presidente del comitato studentesco sembrano chiusi, fino a che la fidanzata di lui e arcinemica di Payton, Astrid (Lucy Bolton), prende il posto del ragazzo suicida e nomina come sua VP Skye (Rahne Johnes), una ragazza lesbica e afro-americana. In risposta alla rivale, Payton sceglie Infinity Jackson, studentessa malata terminale. Ma qualcosa nella storia di Infinity non torna (e forse non torna perché una ragazza che fa la chemio non dovrebbe avere le sopracciglia): il segreto di Infinity, gelosamente custodito dalla nonna Dusty Jackson (Jessica Lange), costringe Payton a vivere le elezioni con la spada di Damocle di una verità che non può essere svelata.
Il personaggio di Payton ricorda molto quello dei due protagonisti di American Crime Story, O.J. Simpson e Andrew Cunanan, l’assassino di Gianni Versace: tutti e tre sognano di vivere il sogno americano ma vengono continuamente respinti, condannati a rimanere degli outkast. Un’ossessione, quella del sogno americano, dei loser, degli emarginati, sviscerata lungo tutta la carriera di Murphy, di cui The Politician non è però tra i prodotti migliori. La serie infatti, almeno da questa prima stagione, appare riuscita a metà, sorretta da un grande cast e ricca di trovate divertenti e geniali, ma carica anche di elementi deboli che non ne fanno un prodotto pienamente convincente ma anzi un calderone di generi, citazioni e auto-citazioni mescolate all’attualità che non colpiscono mai a fondo. Un prodotto cinico, freddo e ben confezionato che però non colpisce al cuore, proprio come Payton.
Probabilmente, se la serie avesse avuto meno episodi o se la durata di questi ultimi fosse stata inferiore ai 45 minuti, il risultato finale ne avrebbe giovato, come dimostra l’episodio più riuscito della serie, un piccolo capolavoro: The Voter. Diretto da Ian Brennan, co-creatore della serie insieme a Murphy e Brad Falchuk, The Voter ha una durata anomala (25 minuti sui 45 degli altri episodi); segue Eliot, uno studente del primo anno completamente disinteressato alle elezioni, ed è il ritratto dell’elettore medio che vive il dibattito politico come un fastidioso rumore di sottofondo di cui non vede l’ora di liberarsi. Un episodio che fa storia a sé, diretto, interpretato e scritto in maniera magistrale, ma anche una gemma di scrittura collocata a metà di una serie che proprio nella sceneggiatura ha il suo punto debole. The Voter alza per un poco l’asticella di The Politician, che dopo però si abbassa di nuovo e torna alla sufficienza.
Forse le aspettative suscitate dalla serie (e dall’accordo senza precedenti da cui proviene) erano troppo alte, forse c’era veramente troppo da dire, e certamente in ogni writer’s room del mondo dovrebbe esserci la foto di Franco Cristaldi, produttore di Nuovo Cinema Paradiso, che salvò il film di Tornatore imponendo tagli drastici all’autore. La prima stagione di The Politician non verrà ricordata tra i capolavori di Murphy, ma diverte, intrattiene e merita il binge watching. Ma non fatevi troppe aspettative.