Escape at Dannemora
Ben Stiller dirige una miniserie prodotta da Showtime sull'evasione realmente avvenuta di due carcerati, scegliendo una strada espressiva particolare e riuscita.
Nella carcassa di un realismo svuotato di epica Escape at Dannemora fa battere il cuore del suo racconto. La miniserie prodotta da Showtime, diretta da Ben Stiller e creata da Brett Johnson e Michael Tolkin, è infatti un’architettura audiovisiva che per organizzare la sua storia non tiene conto del peso di intrecci nervosi, tensioni muscolari e tracce spirituali, e usa solo lo scheletro della sua struttura formale per costruire il corpo della narrazione e la sua essenza e le sue parti. Non è un difetto, anzi, è l’estremo di un’operazione concettuale raffinata che è tutta grammatica e sintassi cinematografica, e che sceglie con coerenza e precisione come trattare il materiale della sua storia: l’evasione realmente avvenuta nel 2015 di due detenuti dal Clinton Correctional Facility grazie all’aiuto di una dipendente del carcere. Storia vera, da poco accaduta, evento di cronaca su cui ragionare a fondo e attraverso cui impostare una riflessione sul ruolo della riproduzione finzionale e sulla posizione della traduzione cinematografica della verità.
Come impostare il racconto del reale? Quale punto di vista utilizzare? Come gestire l’empatia prodotta dall’avventura narrativa? Sono interrogativi simili che presuppongono e anticipano questa scelta formale, e che trovano risposta in una precisa forma di minimalismo, che si adatta alla situazione di riferimento e organizza la narrazione in tutti i suoi dettagli per inseguire la piena verosimiglianza: la regia di Ben Stiller - fondamentale nell’indicare la direzione e distribuzione minimale degli elementi in campo; i personaggi – agenti narrativi in continuo spostamento; gli spazi – palcoscenico in cui concretizzare l’azione. Tutto sembra scarno ma è proprio nelle geometrie scheletriche che si addensa il contenuto del racconto e la riproduzione assume i connotati del realistico.
L’evasione di Richard Matt e David Sweat assume puntata dopo puntata le forme di una sinfonia lenta e apparentemente senza centro, ma in realtà coordinata per essere un corpo unicamente e organicamente teso alla riproduzione dei fatti, alla fattuale, fredda e congelante verità delle cose che sopravvive oltre le riflessioni sull’empatia e sul sentimento, sulle controversie etiche e sulle fragilità morali. Lo spettatore è turbato e affascinato dall’interpretazione mefistofelica di Benicio del Toro (Matt), dal portamento sofferto di Paul Dano (Sweat) e dal corpo viziato di Patricia Arquette (la dipendente basista Tilly) non per la natura finzionale della loro partecipazione ma per la credibilità presente nelle pieghe dei loro volti, dei loro corpi stanchi e sfatti, emblemi così evidenti della mitologia spiccia di un white trash che non è oggetto di farsa ma soggetto del dramma sociale. Le straordinarie prove attoriali non mimano il vero ma lo attualizzano nei gesti piccoli, nelle inezie, negli occhi e nell’azione. Azione che scorre in due spazi differenti e viene esaminata nelle zone dell’evidenza – i luoghi comuni della prigione – e rivelata nelle zone dell’inconscio – il labirinto di tubi che veicola la fuga, lo sgabuzzino della sartoria. Gli spazi sono attraversati con delicatezza dalla regia, che riunisce sotto la sua attenzione gli elementi dello spartito, in un crescendo di aderenza al reale che culmina nella volontà di non staccare mai e quindi di affondare nelle prospettive e nelle profondità della storia attraverso continui piani sequenza che provocano vertigini attraverso l’esposizione orizzontale e sintetica della cronaca che rovescia la potenziale analisi verticale – fatta di riflessioni sulle gerarchie, sulla classe, sull’impianto sociale – con un inseguimento che come linea retta unisce tutti verso il punto di fuga.
Escape at Dannemora evita di raccontare l’evasione come complessa e articolata vicenda sociale, rendendola cronaca lineare persa tra le sbarre di una cella qualunque. La complessità e l’intelligenza di questa serie risiede non a caso nello scarnificare l’evento da qualsiasi aggancio empatico, pur avendo alcuni raffinati momenti di introspezione psicologica. Il tutto senza patetismi, afflati glorificanti o ricatti emotivi, bensì grazie a un controllo maniacale sull’immagine e sugli interpreti, in virtù di un arco drammatico capace di riprodurre un evento realmente accaduto scegliendo validi punti da cui esaminarlo: legando piedi e mani degli spettatori di fronte alla violenza spoglia di effettistica, forzature e estetizzazioni; tagliando il fiato della finzione con un seghetto banale, usa e getta, brutale.