The Fabelmans
Il film che racchiude una carriera fatta di sogni e frammenti autobiografici, incontro di classico e moderno in cui si declina l'umanità del dramma famigliare e le tante implicazioni dello sguardo. Vedere come modo di essere e partecipare al mondo. Tra i migliori film di Spielberg.
In anni di cinema americano sempre più adagiato tra le pieghe della Franchise Age – dove pressoché ogni promessa registica riceve e spesso cede alle lusinghe del brand, condizionata da un sistema seriale che del production system degli anni d’oro esaspera la natura macchinica in forma di algoritmo e marketing test – è evidente come i film che vale la pena ricordare e amare appartengano per lo più alla generazione dei “vecchi maestri”, quella dei Tarantino, Anderson, Mann, Cameron, Gray, Spielberg, la maggior parte dei quali oggi interpreta il gesto cinematografico come questione autobiografica, o comunque proiettata al passato e alla meta-riflessione sul dispositivo e sul ruolo che il cinema ha avuto, e può ancora avere, nella nostra struttura del sentire e del conoscere. Come se la memoria fosse l’anticorpo a cui ricorrere di fronte un sistema sorretto, ma in bilico come una bolla pronta a esplodere, dalla logica brandizzata del franchise a tutti i costi.
C’è un momento di The Fabelmans (tra i tanti, magnifici, di cui è costellato il film) che ben racchiude questo bisogno a due corsie che lega regista e spettatori attraverso l’immagine, il desiderio scopico per cui lo schermo diventa il luogo in cui è possibile rispettivamente condividere e ricevere lo sguardo. Abitare l’occhio altrui, prendere le parti. È quando Sammy – che finalmente torna a filmare in occasione del Ditch Day – condivide la macchina da presa con Monica, la sua ragazza, porgendole il mirino ottico per mostrarle ciò che sta vedendo lui in quel momento attraverso la ripresa. A conti fatti è tutto qui il cinema, specie quello di Steven Spielberg: una convivenza nell’immagine, prestare il proprio sguardo, ospitare qualcuno nel modo unico che abbiamo di vedere e sentire il mondo.
In questo senso due film che sembrano agli antipodi – The Fabelmans e Avatar: La via dell’acqua – si parlano e sovrappongono nell’importanza che danno allo sguardo-cinema come strumento conoscitivo e relazionale. I see you, detto più o meno testualmente attraverso immagini che oscillano tra classicità e modernità, tra trasparenza cristallina d'intenti e meccanismi narrativi, ed evidenza autoriale del dispositivo. Che sia costruzione poetica o tecnologica poco conta in tal senso, il cinema è comunque una camera dello spazio e del tempo che contiene il mondo e lo rigenera. Del resto la dicotomia tra tecnologia e poesia è quella che attanaglia Sam nel suo nucleo famigliare, incarnata nelle opposte figure del padre ingegnere e della madre musicista. E sempre duale, ma più critica e difficilmente risolvibile, è la relazione tra la famiglia e il cinema stesso: allertato dallo zio, Sammy diventa comunque un junkie, diviso tra la naturale appartenenza e partecipazione alle cose e il bisogno crescente di porsi a lato per guardare, filmare, sublimando così una necessità di controllo mai pacificata.
Dentro The Fabelmans si declinano le varie implicazioni dello sguardo e del fare cinema, le sue promesse e responsabilità, il suo costo. Anzitutto il potere manipolatorio dell’immagine, la possibilità di costruire miti che mistificano o possono schiacciare per il peso che comportano, come racconta la scena risolutiva tra Sam e il bullo Logan, scheggia al technicolor che attraverso le griglie del melò e dello youth film dice più e meglio di quanto facciano tanti film teorici impegnati a sviscerare le implicazioni delle immagini. O ancora, il bisogno del controllo sublimato dalla costruzione fisica dell’inquadratura e del set, dalla direzione degli attori e delle storie, come anche il ruolo conoscitivo del guardare: lo sguardo arriva alle cose del mondo prima della mente, negli occhi già sappiamo, e il cuore e lo stomaco non sono altro che la cassa di risonanza di quella conoscenza. E quindi, se il cinema, ci insegna Godard, sostituisce al nostro sguardo un mondo che si accorda ai nostri desideri, ciò vale più in termini registici che spettatoriali, porgere il mirino della macchina da presa significa far sì che l’altro possa abitare i nostri sistemi desideranti, rendendo il fotogramma la presa in prestito di attimi di vita, il luogo di un’accoglienza.
Costruito sui due assi narrativi di dramma famigliare e origin story dello sguardo, The Fabelmans è un racconto di formazione che lavora su due livelli, perché imparare a guardare è imparare a stare al mondo, il che significa cercare di esservi partecipi, oltre che osservatori, senza perdere mai di vista le coordinate sentimentali e memoriali di chi ci circonda. Per questo i personaggi della madre e del padre di Sammy sono magnifici esempi di profondità e intelligenza narrativa, simbolici e comunque vivi, incarnati da due attori in stato di grazia. The Fabelmas è il coronamento della carriera “adulta” di Spielberg, tra le vette di un percorso che da War Horse in poi si confronta inesausto coi sistemi della memoria personale e collettiva, storica e cinematografica, sfidando la canonizzazione delle forme e dei linguaggi per raggiungere la sintesi in una nuova, rigenerata, classicità.
Movies are dreams that you never forget.