The French Dispatch
Anderson spinge le sue immagini fino alla radicalità per tentare un discorso di elaborazione del trauma della morte ma paga un prezzo troppo alto: perde il mondo e perde il cinema.
Chissà come stanno i personaggi di Wes Anderson. Costretti ad acrobazie e torsioni speciali a ogni spettacolo, magari non vedono l’ora di sgranchirsi le membra fuori dalla rigidità della struttura argomentativa in cui vivono. Più che una storia sembrano infatti spesso abitare un’argomentazione pensata dal loro creatore non tanto per farli vivere, quanto per legittimare le proprie visioni: The French Dispatch somiglia soprattutto a questo, un discorso di radicale legittimazione di uno stile attraverso la pratica di confessione dei propri feticci. O meglio, una confessione dei metodi di elaborazione delle angosce personali, delle strategie della loro sopportazione, attraverso la sola forma e non più il racconto. Se infatti non si può ignorare che l’aspetto di accentuazione della forma (e una direttamente proporzionale negazione delle convenzioni narrative) come strumento di elaborazione di un trauma sia stata sempre firma del regista, è anche vero che mai prima di questo film l’asimmetria tra forma e contenuto aveva danneggiato la vitalità e la libertà dei suoi personaggi: se nei precedenti lavori del regista essi incarnavano difficoltà esistenziali potenzialmente universali – su tutti l’inadeguatezza nei confronti del mondo e la paura della morte –,in The French Dispatch si riducono a figure in relazione a uno sfondo, variabili formali che agiscono per pose relative a un limitato spazio e a un limitato tempo senza aprirsi al mondo.
Questa condizione di immobilità coatta potrebbe sembrare controintuitiva nella visione del film: le storie della redazione del The French Dispatch, inserto culturale che dà il nome al film e di cui il film segue le episodiche avventure, sono piene di movimento e accadimenti, di figure coinvolte in giochi grafici di spostamento e azione, ribaltamenti e inseguimenti. Nella prima storia è raccontato un viaggio panoramico urbano dislocato in spazio e tempo attraverso le incursioni di una bicicletta, nella seconda ci si concentra sulla biografia di un pittore itinerante incarcerato per violenze omicide, nella terza tutto è movimentato dalla lotta strategica dei moti studenteschi, nell’ultima quarta il ricordo di un reportage gastronomico si incastra in una storia poliziesca di rapimento e riscatto. Alla fine dell’esperienza di frenetico movimento, tuttavia, tutta questa condensazione cinetica produce paradossalmente la più rigida immobilità costrittiva: l’impossibilità di circoscrivere la città si sostanzia in un’istantanea giornalistica delle sue parti meno abbienti, l’inspiegabile e angosciato espressionismo astratto del pittore si trova incorniciato in una struttura istituzionale storicizzata e mercantilizzata, la rivoluzione si fa giovane corpo morto, manifesto editato da altri, e la ricerca di piacere gustativo scopre l’ultimo tabu dopo tutte le possibile sfumature dell’avventura. La morte.
Non è difficile identificare in questo stato di immobilità lo spettro del trauma della morte: tutto il cinema di Anderson è costruito parallelamente sull’assunto tematico di riconoscimento della persistenza del dolore e della perdita attraverso la sua negazione vitalistica, e sull’assunto formale di accettazione dell’impossibilità di liberarsi dall’immobile attraverso la produzione di irrefrenabile movimento. Per Anderson questa interminabile e paradossale mobilitazione contro il trauma inamovibile si configura come cinema (un cinema radicalmente ucronico non a caso), proprio nella misura in cui il cinema allo stesso modo è imperterrito tentativo di fare sembrare ciò che è fermo come in movimento – non è un caso che Anderson dedichi momenti apicali del suo cinema a immagini animate in cui questa dialettica di staticità contraffatta è per definizione fortissima. The French Dispatch opera una svolta di radicalizzazione rispetto a questi assunti preliminari non soltanto perché in esso la morte ha più che mai minutaggio (è proprio la morte a essere il motore della storia, visto che è il decesso dell’editore della rivista a scatenare la dirompente episodicità sbrigliata senza armonia interna che costituisce il film), o perché la concitazione è talmente espressione dell’immobilità che finisce per coincidere con essa (si pensi alla scena della rissa nel carcere, in cui il momento di più intenso movimento è reso immobilizzando interpreti e oggetti) ma soprattutto perché, come si accennava, dalla sua equazione è rimosso l’unico aspetto in grado di controbilanciare la pendenza necrofila dell’impianto andersoniano: il personaggio.
Il personaggio è l’ultimo aspetto vitale che può contrariare la rigidità argomentativa della struttura formale, l’unico che può spezzare il circuito attraverso cui questa stessa rigidità si tiene in piedi – secondo cui la forma cerca di elaborare il trauma ma riconoscendo il trauma produce un feticcio che costringe a una risposta di forma, e così via. A differenza di film come Rushmore e I Tenenbaum, in The French Dispatch non c’è più uno scarto di imprevedibilità portato dalla figura umana, non c’è un’idea di libertà in azione che lotta contro il mondo vivendo all’interno di esso, pur nella generazione di una visione straniata dalla realtà per salvezza personale. Per quanto la scelta negativa – quella di eliminare il personaggio al di là della sua funzione di variabile scenica – sia in sostanziale continuità con l’elaborazione del trauma, sembra essere molto meno riuscita della scelta positiva secondo cui è proprio tramite il contraltare della libertà del personaggio che si intensifica il senso della perdita e del dolore. Appiattendo il carattere psicologico a carattere tipografico, trasformando il personaggio in figura, Anderson calca sulla pagina sul punto negativo di rimozione (come soluzione per dire dell’effettivo destino doloroso) fino a strapparla per troppa insistenza. Una prova squisitamente formale di questo scacco autoinflitto, provocato dall'uso spropositato del negativo, è l’uso del colore: adoperandolo per accendere le sue immagini in bianco e nero nei momenti di evocazione epifanica della vita (come di fronte ai quadri del pittore o all’assaggio dei piatti dello chef del quarto episodio) il regista dichiara la difficoltà a trovare già nel colore, non contrapposto al bianco e nero, un segno di vita.
Sorge il sospetto che questa rimozione sia arrivata a un livello di così esponenziale radicalità da perdere il mondo. La teoria visiva di Anderson ha il merito di ricordare quanto la morte sia occultata nella società del sollievo retromaniaco e quanto il dolore sia espunto dalla società culturale che vorrebbe esprimerlo, ma paga un prezzo alto perché si rompe come meccanismo di lotta, di contrasto, di attrito vitale. L’immagine non dice più del mondo, non dice più del cinema, dice solo del suo autore e neanche nella modalità di una confessione di impasse in cui trovare un disperato riflesso di autenticità altra. La confessione è autolegittimazione di un postulato, argomentazione circolare che non si frattura per dubbio: proprio come lascia intendere il finale del film, in cui i giornalisti di The French Dispatch si siedono di fronte al corpo immobile del loro editore e, dopo essersi chiesti “che fare ora?”, un po’ abbandonati e spaesati dalla morte della mente che li agiva, li muoveva, li controllava, sembrano solo essere in grado di ricominciare a scrivere e così dissolvere il rumore del lutto nel più rumoroso battere della macchina da scrivere. L’inquadratura finale, quella finestra/cornice che li immobilizza nel loro automatismo, dice del passaggio nel cinema di Anderson da un’istanza di liberazione a un’istanza di prigionia: se prima il regista si costringeva a una forma rigida per dire dell’esistenza di un possibile scarto attraverso il racconto delle sue storie, ora sembra avvenire l’inverso, per cui è l’imprigionamento dei personaggi a liberare il regista dalle sue angosce, alla maniera del rapporto tra il pittore Moses Rosenthaler e la sua musa Simone. Un po' come nota, proprio a proposito, la storica dell’arte J. K. L. Berensen interpretata da Tilda Swinton, quando commenta che, in certi soggetti, la visione della cattività altrui può scatenare un più profondo godimento per la propria libertà.