Godzilla

Se esiste un luogo dove si può affermare tranquillamente che “le dimensioni contano” senza risultare maliziosi quello è senz’altro il cinema. Da quando Ishiro Honda girò il primo Godzilla nel 1954, per “rispondere” al King Kong di Cooper e Schoedsack, l’immenso lucertolone è stato protagonista di ben 29 film (per non parlare dello sterminato mercato del merchandise a lui dedicato). Godzilla è una delle icone più riconoscibili e note dell’immaginario fantastico del secondo ‘900; basti pensare all’iperbole citazionista che da Tesoro mi si è allargato il ragazzino, in cui il bambino Adam viene trasformato in un gigante dalle radiazioni (e in cui un turista giapponese lo addita terrorizzato girdando proprio: “Godzilla!”) arriva al titolo Gadzilla scelto dal cantante e bassista italiano Max Gazzè per il suo terzo album in studio. Come tutte le grandi icone crossmediali anche Godzilla vive delle stratificazioni narrative che si sono sommate di riscrittura in riscrittura fino ad arrivare ai giorni nostri: tempi di rebooting radicali in cui si cerca di fare tabula rasa per stabilire un nuovo punto di partenza nella continuity del personaggi.

Dopo un lungo sonno di sedici anni – tempo ritenuto sufficiente per far dimenticare alle nuove generazioni l’ingiustamente bistrattato film firmato da Roland Emmerich – Godzilla è stato risvegliato e portato nuovamente sul grande schermo da Gareth Edwards. Il risultato purtroppo delude profondamente. Il film sembra inizialmente voler seguire le orme di tutti quei creature-feature movies – come Alien e Lo squalo – in cui le creature si vedono pochissimo e spesso solo nell’ultima parte del film, pur rappresentando l’oggetto di maggiore interesse da parte del pubblico. Quest’atteggiamento, che potremmo esagerare chiamandolo anti-divistico, porta al risultato sperato soltanto in presenza di un’abilissima gestione della suspance e del ritmo del film cosa che manca quasi completamente nell’opera firmata da Edwards. Il mostro che dà il titolo al film infatti viene inquadrato complessivamente circa venti minuti su più di due ore di durata totale e -salvo un bel combattimento finale che anche stilisticamente tributa il capostipite nipponico del 1954 – in modo spesso disfunzionale per la sua resa epica ed iconica su grande schermo.L’abuso (ormai più una piaga che una moda) della shaky-camera vista in azione con risultati altrettanto nefasti anche ne L’uomo d’acciaio di Zack Snyder porta irrimediabilmente ad un corto circuito l’operazione filmica di aggiornare il mito di Godzilla: da un lato abbiamo infatti un’estetica che lambisce il documentario (camera a mano, piano sequenza sporchi, zoom in e out da reporter, etc) e dall’altra la necessità di ricollegarsi con un’estetica da cinema classico in cui gli attori e la consecutio narrativa sono i veri protagonisti. Un Godzilla antropocentrico e in sottrazione sarebbe quasi potuto essere interessante ma la totale mancanza di guizzi e spessore nella scrittura trasforma ogni sequenza in cui non compaiono i mostri in CGI (e quindi quasi tutto il film) in estenuanti scene di raccordo, in cui un cast assolutamente inadeguato non contribuisce minimamente al portamento emotivo della storia. Aggiungiamo inoltre che i nomi di Bryan Cranston e di Juliette Binoche sono solo specchietti per le allodole, in quanto i due scompaiono dopo pochi minuti dall’inizio del film, producendosi comunque in una pessima performance. Si potrebbe pensare a un accanimento gratuito da parte di chi scrive ma, nonostante tutti i difetti che gli si possono attribuire, assicuro ai lettori quanto sia veramente difficile trovare un lavoro così scarso nella direzione degli attori nel contesto di in una grande produzione statunitense.

Evitando di dilungarci ancora per molto nell’elenco dei problemi del film in questione (e purtroppo sono ancora innumerevoli) concludiamo col dire che Godzilla appartiene a quella categoria di blockbuster contemporanei che non ha il coraggio (o la possibilità) di uscire fuori dai binari del didascalismo politicamente corretto (come invece è accaduto con quel piccolo miracolo di Pacific Rim, il kolossal recente più libero in tal senso) e svincolarsi dal cerchiobottismo di troppe produzioni coeve.

Autore: Tommaso Di Giulio
Pubblicato il 18/08/2014

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