Kim Ki-duk - Appunti per una filmografia infranta

Scompare uno dei grandi registi degli anni Duemila, lo ricordiamo con un caleidoscopio di immagini, firme, ricordi.

Kim Ki-duk Point Blank

(1996) - Coccodrillo

Un vagabondo soprannominato Coccodrillo si guadagna da vivere depredando i cadaveri dei suicidi, annegati nel fiume Han. A fargli compagnia troviamo un anziano e un bambino. Il precario equilibrio del terzetto è scosso dall’arrivo di una donna, aspirante suicida per amore, prima salvata e poi sottomessa da Coccodrillo, che ne fa una sorta di schiava sessuale. Il magnifico esordio di Kim Ki-duk rappresenta un vero e proprio manifesto teorico, nel quale troviamo condensati tutti gli aspetti salienti della sua poetica: la dialettica tra crudezza e lirismo, umane aberrazioni e folgoranti intuizioni visive, il sadomasochismo nel rapporto uomo-donna, la valenza simbolica dell’acqua e degli animali (in questo caso una tartaruga, che tornerà poi in Primavera, estate, autunno, inverno e ancora primavera), l’astrazione spaziale, la solitudine, il pessimismo radicale. E soprattutto: la natura politica del suo cinema, come controcampo estremo del capitalismo sudcoreano, di cui Coccodrillo rappresenta un figlio mostruoso.
Giulio Casadei

(2000) - L’isola

Un uomo e una donna. Su un’isola. Ma nessun uomo è un’isola. Così le due solitudini, e le due disperazioni, finiscono per incrociarsi e unirsi. Il film che ha lanciato Kim Ki-duk a inizio millennio, spaccando la superficie dei festival, è una summa dei suoi temi: il mondo a parte, il microcosmo (anche l’eremo di Primavera sarà un’“isola”), il dolore insuperabile dell’uomo, e qui soprattutto l’incontro. Hee-Jin e Hyun-Shik, nomi mai detti, formano infatti l’apoteosi dell’incontro tra perdenti, ultimi, smarriti. È un rapporto sadomaso: ma «la violenza è un linguaggio del corpo», secondo Kim, e così gli amanti si pescano a vicenda come si pescano i pesci, con gli ami infilati in bocca e nella vagina, ovvero negli orifizi primari. E l’uomo è quel pesce scarnificato che continua ad abboccare, correlativo oggettivo dei protagonisti: anche loro abboccano all’infinito al rispettivo dolore di esistere. Ma, a sorpresa, affiora il sospetto dell’amore: il lato violento del rapporto diviene metafora di ogni storia, della perenne trattativa tra amanti, del prendersi e lasciarsi, con l’una che richiama l’altro (e viceversa) inscenando un possibile suicidio. Kim Ki-duk incide l’affresco del quadro nella prima parte con estro pittorico, astraendo il contesto, facendo dell’isola un luogo mentale (e sentimentale) di estrema suggestione. Poi, esattamente a metà film, inizia la danza d’amore e violenza degli amanti che porta al clamoroso crescendo pre-finale. Kim, geniale non per costruzione, ma per intuizione, semina simboli aperti lasciati all’interpretazione di chi guarda: fino all’ultima immagine ci chiama in causa, ci convoca, ci invita a rispettare un mistero, quello del suo cinema.
Emanuele Di Nicola

(2003) - Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera

Una porta si apre verso un mondo altro, un tempio immerso nella natura, circondato dalle acque docili e imperturbabili di un laghetto. Una cornice senza muri che delimitano il perimetro dello spazio, un varco simbolico più che funzionale conduce lo spettatore in una dimensione mistica. Le fasi della vita di un monaco, l’innocenza, con i primi segni di inconsapevole crudeltà, l’ossessione dei desideri carnali dell’adolescenza, il dolore e il tentativo di espiazione dell’età adulta, e la saggezza e compassione della vecchiaia, si alternano alle quattro stagioni. Kim Ki-duk abbandona la violenza grafica e gli scenari urbani per dipingere un mondo elegiaco, sospeso nel tempo, fatto di silenzi e di piccoli gesti, in cui perdersi nella più completa contemplazione. Un paesaggio edenico che, tuttavia, solo in apparenza conciliante mostra un tratto inquieto. Un luogo in cui si chiede protezione e si espiano i propri peccati. Il regista stesso entra nella ruota del samsara iniziando il proprio percorso terapeutico e di redenzione.
Samuel Antichi

L'isola

(2004) - La samaritana

Leone d'argento alla Berlinale 2004, decimo film di Kim Ki-duk, che a inizio millennio ancora godeva della piena fascinazione e dell'ascendente esotico - per l'attraente, indecifrabile estraneità dell'oggetto asiatico - esercitato sul pubblico occidentale. Un momentaneo periodo aureo durante il quale, se si era (altrettanto temporaneamente) abbassata d'intensità la carica cruda, il vibrato sporco dei primi lavori, non era comunque venuto meno il suo impeto a rovistare nelle viscere grette del mondo, nelle immagini lacerate che da quel mondo tentano di proteggersi. Come fanno Jae-yeong e Yeo-jin: la prima si prostituisce, s'innamora di un cliente, muore; la seconda rimette in scena il peccato del suo corpo, o forse ne rilancia e rivendica il gesto d'esistenza; mentre il padre la insegue e ripara la colpa della figlia nel modo in cui può (è una vittoria facile, ma guardiamo qualche minuto di Baby su Netflix e poi torniamo qui...). Fra i caratteri e le strade tragiche ricorrenti nel cinema di Ki-duk, a replicarsi da La samaritana in avanti (Pietà, Moebius) è il farsi implacabile e istintuale di una parabola morale che interroga la realtà dell'umano e cerca, da essa, una via d'uscita, la possibilità di una purificazione.
Fiaba Di Martino

(2004) - Ferro 3, la casa vuota

La curiosità nello sguardo; l’occhio; osservare e innamorarsi. L’arte di Kim Ki-duk rifletteva sulle proprietà sensoriali del cinema. Se puoi vederlo, puoi farlo. Vedere l’amore nelle case degli altri, negli oggetti, nei cimeli, nei vestiti da lavare, nelle fotografie appese al muro che grazie a selfie ante litteram diventano istantanee sovrapposte di paradossale complicità. Ama il prossimo tuo come te stesso, anche se non lo conosci. Nel 2004 l’autore coreano firmava un manifesto cristologico, quindi esistenziale ed ecologico. Ferro 3 – La casa vuota parte con la sicurezza dell’abitudine, rompe l’equilibrio con la dolcezza di chi riesce a dire tutto senza parlare affacciandosi di volta in volta sulla soglia – che splendido leit motiv – infine accoglie la violenza come un male necessario proprio come nei film precedenti e successivi, e si invola verso una finzione irrealizzabile che forse è stata solo un sogno, una speranza o un rimpianto. Un cinema irripetibile capace di guardare lontanissimo solo se il pugno è aperto – la mano con l’occhio disegnato nel palmo, riprodotta fieramente a Venezia mentre l’altra, di mano, reggeva il Leone d’Argento.
Paolo Di Marcelli

primavera estate autunno

(2005) - L’arco

Un arco è un’arma, ma può diventare pure un oggetto di culto, se lo si inquadra col dettaglio della cinepresa di Kim Ki-duk, che fa risaltare la levigatura del legno, il gusto decorativo dei tessuti colorati che lo avvolgono, la rigidezza della sua corda tesa. E può diventare un violino, se si sfrega quella corda con un archetto. Il regista coreano ce lo dice per tutto il film, nel racconto fascinoso di un vecchio pescatore e di una ragazzina che ha salvato per mare da neonata. Torna il regno liquido dell’acqua (L’isola) e la parola è nuovamente recisa quasi del tutto (Ferro 3), ma ora il tono si allevia ulteriormente e si fa fiabesco, con la fanciulla che è una sorta di vergine ondina e il vecchio eremita dei mari pronto a sposarla per vivere in eterno nell’idillio del mare, fuori dal mondo. Se l’arco è un violino, anche la violenza è stata tagliata via, come la corda annodata al collo del pescatore inerme che vorrebbe togliersi la vita, quando la ragazzina si rifiuta di sposarlo. E neppure il sangue schizza più come sulle case galleggianti e sugli arti spezzettati dei corpi, la sua unica traccia è una macchia sul vestito bianco della ragazzina che ha perso la verginità con un essere invisibile (il vecchio pescatore?) e per mezzo della sua freccia divina. Dove ci ha condotto ora la mitologia istintiva di Ki-duk? Lo suggerisce un commento a chiosare la poesia sonora e la levità miracolosa delle immagini: «strength and a beautiful sound like in the tautness of a bow. I want to live like this until the day I die».
Andrea Giangaspero

(2007) - Soffio

Un uomo, una donna, una condanna a morte. Una piccola cella, che lei tappezza di carta da parati per simulare impossibili primavere e spiagge perdute, dove si consuma una passione disperata, senza passato né futuro. Un secondino che controlla i loro incontri, agli ordini di un “demiurgo” (un addetto alla sicurezza, interpretato dallo stesso regista), ora sadico ora indulgente, che osserva gli amori del prigioniero e della sua ospite attraverso uno schermo, e spingendo un pulsante decide del loro tempo e del loro desiderio.
Forse il prigioniero, in quanto tale, è un illuminato. Forse è necessario essere privati di tutto per comprendere la bellezza segreta del mondo e il valore di ogni più piccola cosa: per questo il protagonista custodisce gelosamente in bocca un capello della donna amata.
L’eros è un fuoco purificatore e assieme distruttivo, mentre il matrimonio è una farsa; la morte è imprescindibile e la crudeltà necessaria. Soffio si muove dentro le coordinate tipiche del cinema del grande maestro coreano, alle quali si aggiunge qui un complesso gioco metacinematografico. Film asciutto e ruvido, a tratti quasi grottesco, che rifiuta la meravigliosa eleganza estetica di tanti titoli precedenti, è probabilmente una delle opere più autentiche di Kim Ki-duk.
Arianna Pagliara

arco

(2011) - Arirang [Kim]… Amen

11 Dicembre 2020, muore Kim Ki-duk.
Le sale sono chiuse, il presente scorre incerto, il cinema non c’è eppure i film sono dappertutto.
2011, Arirang. Lontano dall’industria cinematografica che l’aveva osannato come il re della new wave coreana, Kim si ritira in un rifugio in montagna. Mangia, beve, dorme e piange. Non vuole più saperne della sua vita precedente. Punta la videocamera verso di sé, poi la camera diventa una pistola e la tenda un confessionale: Kim ci guarda e, con occhi gonfi di lacrime, canta a sguarciagola Arirang. Mai più.
Mai più…
Se sei nato quando lo sguardo aveva una morale, se credi che l’estetica debba essere una questione etica, Arirang rappresenta un cortocircuito totale. Cosa è giusto vedere? Cosa è vero? Cosa osceno? Qual è il limite che non si dovrebbe mai superare? E, soprattutto, dove sta scritto che non si può? Il dolore, solo al dolore non si può mentire.
Il trauma di una morte non avvenuta (l’attrice che sul set di Dream rischiò di rimanere impiccata) segna le traiettorie di tutti quei film che non vedremo mai. La morte stessa di Kim viene inscenata in una tenda che si fa teatro di posa. Kim è morto, Kim è di nuovo vivo.
Arirang: non c’è più bisogno di grandi set, siamo fatti di cinema, le immagini fanno parte del nostro stesso DNA. Guardare significa guardarsi e Arirang è l’autoritratto per eccellenza del nuovo millennio. Il cinema è ovunque: per continuare a farlo, bisogna tentare di vivere e dimenticare. Disimparare la grammatica, affidarsi unicamente al proprio dolore.
Pochi mesi dopo, alla preghiera segue Amen: munito della propria videocamera, Kim viaggia lungo quella stessa Europa che tanto l’aveva acclamato. L’uno di Arirang si fa due in una personalissima, nuova Nouvelle vague: protagonista una donna coreana, turista in terra straniera, che insegue ed è inseguita da un uomo. Lei cerca lui, lui cerca lei, nello strazio dell’unico vero amore. Un nuovo inizio, libero da qualsiasi mediazione. Addio al linguaggio, forse.
Il cinema ricomincia da capo ma niente potrà tornare più come prima. Mai più.
Arirang Kim…amen.
Samuele Sestieri

(2012) - Pietà

La locandina è figlia di un viaggio in Italia lontano nel tempo, quando Kim Ki-duk non era ancora un regista. La visione della michelangiolesca Pietà nella Basilica di San Pietro al Vaticano lo segna profondamente. Da Maria e Gesù a una madre e un figlio nei sobborghi di Seul, in una città che sta cambiando per sempre, nel cuore di un’umanità che sta cambiando per sempre. La Pietà del regista sudcoreano è un film dell’odio e dell’amore, un’opera che dice il male del capitalismo, degli uomini che hanno perso l’anima, del dominio del denaro. Un figlio che lavora per un usuraio e rende storpi gli artigiani che non riescono a restituire i loro debiti; una madre mai conosciuta, ora apparsa come una fantasma, all’improvviso. Un miracolo, un inganno, una vendetta. L’amore muore tra espiazione e redenzione. La sequenza finale, sulle note di un dolente Kyrie eleison, è da brividi. Film Leone d’oro a Venezia 2012.
Leonardo Gregorio

(2013) - Moebius

«La verità è che combattiamo una lotta interiore. 8 diventano 4, 4 diventano 2 e 2 diventano 1, cioè me. Io sono tutti e 8». Così Kim Ki-duk confessava alla sua stessa ombra in Arirang. Espressione di una poetica che in Moebius si letteralizza fino alla sua forma più radicale: la madre evira il figlio al posto del padre; il padre dona il proprio membro maschile al figlio; la madre si riunisce col figlio; il padre assiste alla scena primaria tra moglie e figlio, ormai sostituito al secondo. Il giro sul nastro è completo, la prospettiva ribaltata ma la superficie sempre la stessa. «Io sono il padre, la madre è me e la madre è il padre» chiosa il regista su un film che non necessita di altre spiegazioni e che, per l’appunto, rinuncia ai dialoghi. 3 diventano 2, 2 diventano 1. Un film sul desiderio, il conflitto interiore per eccellenza. Dunque, un film sull’assenza che il suo raggiungimento disvela. Un horror dello spirito sui guai di ogni giorno (come in Claire Denis quanto più sangue e umori vediamo, tanto più ci troviamo al cospetto di manifestazioni interiori). Anche se non tra i film migliori di Kim Ki-duk, sicuramente tra quelli che più di tutti tentano una riduzione archetipa della sua filosofia. Una virata, ma forse solo apparente. Perché, ancora una volta, si ritorna allo spirito, da cui del resto non ci si è mai allontanati. Prendere o lasciare.
Riccardo Bellini

Autore: Redazione .
Pubblicato il 17/12/2020

Articoli correlati

Ultimi della categoria