One on One
Il corpo e le macerie. L'autoarcheologia di Kim Ki-Duk
Da Moebius in poi, Kim Ki-Duk è entrato nella fase più radicale del suo cinema, una fase tuttora in corso e su cui è possibile rendere conto solo in termini di ipotesi di lavoro e umili impressioni su carta: per un autore sempre più liquido, ruvido, impermeabile alle consuete strategia di decodifica critica e godimento estetico, un eccesso di teoria porta con sé gravi rischi di fraintendimento, se non rigetto. La disattenzione nei confronti delle ultime opere dell’autore coreano dimostra che, di fatto, la stessa critica internazionale che ha celebrato Kim Ki-Duk per decenni non sa che farsene di questa seconda fase e di questo cinema nudo, provvisorio, orale e carnale. Il fatto non sorprende: come abbiamo visto in questo dossier, il nuovo Kim Ki-Duk prescinde da qualsiasi schema prestabilito, incluso quello del cinema di ricerca, ed ha azzerato le norme consuete della dialettica tra artista, critico, circuito festivaliero e pubblico.
Quale teoria potrebbe inquadrare un film trasparente come One on One? Trasparente: vuoto come un sistema formale o una matrice per calcolare la soluzione di un teorema che già si riconosce come insolubile, indeterminato. One on One ci mostra la violenza della natura umana e della sua funzione per raggiungere un’illusoria giustizia: una ragazza viene brutalmente uccisa e i suoi assalitori sono a loro volta rapiti e sottoposti a torture e pestaggi al fine di estorcere una confessione dalla scarsa utilità. Il gruppo di giustizieri – tutti vittime di soprusi, debiti o della propria stessa natura – finisce inevitabilmente con il riprodurre le dinamiche dei carnefici.
Questo corto circuito tra verità, inganno e violenza è, a conti fatti, un teorema molto simile a quello che sta alla base di Red Family, film di poco precedente prodotto e sceneggiato (ma non diretto) dallo stesso Kim Ki-Duk. Tuttavia, a differenza di quest’ultimo film, One on One non ha nulla di vitale e di narrativo, e non c’è nulla di accattivante nei suoi personaggi. Le parole perdono significato e i personaggi sono incatenati alla ruota di una violenza che, una volta messa in moto, diventa ragione di vita e fonte di godimento per i suoi attori e le sue pedine. La vendetta è un motore disumano che macina forme sempre diverse e vesti sempre nuove, ma della realtà circostante – delle biografie, della storia, del paesaggio – non sembrano esserci che le tracce e i fantasmi. Persino lo shock della violenza fisica, ripetuta sulle diverse vittime, entra in crisi come per attrito e si fa meccanica, inutile. One on One mette in mostra la struttura di pensiero alla base della natura umana e la anima con gli strumenti di un cinema carnale e onirico, verboso eppure rituale. Al centro c’è il dolore, che nasce e trova sfogo nello spazio angusto di una stanza in cui si consumano quelle torture su cui Kim insiste, come per reagire all’horror vacui di un mondo-cinema digitale, a privazione sensoriale.
Risulta difficile individuare un percorso agibile tra le macerie di questo cinema. Si delineano quest personaggi ostentatamente vuoti, pedine da morality play; frammenti di tragedie greche e operette morali; ombre di corpi (il gruppo di giustizieri, è il caso di notare, si chiama Shadow) che si agitano e osservano con occhi increduli. Altri frammenti di un lessico filmico lungamente, brutalmente scomposto sono sparsi e riconoscibili: la maschera antigas indossata dal carnefice per l’ultimo delitto ci riporta ad Amen, mentre il rapporto sessuale, che sarebbe più corretto definire uno stupro, pare l’eco di Moebius. Impossibile stabilire un percorso, anche perché questo cinema non si è mai mosso. One on One è un percorso circolare; un ambulacro dal quale, di fatto, non c’è via di fuga. Dietro questa illusione cinematografica si intravedono gli occhi e le mani di un regista che torna continuamente ad Arirang e da quel punto zero del cinema riparte per tracciare nuove traiettorie circolari. Ciò che resta di narrativo, politico e persino estetico sembra quasi incidentale, data la natura introspettiva di questa ricerca. Per il regista sudcoreano, non serve raccontare nuove storie, né ha senso creare nuovi, seducenti feticci. Kim Ki-Duk non rappresenta che se stesso e le proprie ferite aperte: questo cinema imperfetto e osceno è, per l’autore, l’unica possibile approssimazione al vero e all’etico dell’immagine cinematografica.
One on One sgorga da queste ferite, da questa tela tagliata: dopo Moebius, per Kim non si è trattato che di proseguire nello scavo e sondare gli abissi dietro la carne, alla ricerca delle tracce dell’uomo. One on One è una seduta psicanalitica collettiva a partire da una tabula rasa e una visione del mondo dissolta e senza più referenti; è, soprattutto, l’autoarcheologia di un autore generoso che ha accolto la propria crisi e ne ha fatto materia di ricerca e di espressione artistica.