L'altro Kim Ki-Duk
Viaggio nella seconda fase registica di Kim Ki-Duk
Certo, la domanda è lecita. Perché dedicare un dossier solo all’ultimo Kim Ki-duk e non alla sua intera filmografia, come abbiamo fatto in passato con altri autori? Perché scegliere un cineasta a detta di molti ormai bollito e focalizzarsi solo sul post-Arirang, ovvero sul periodo che molti associano al “declino” del cineasta coreano? Perché appellarci al Kim più sfortunato e bistrattato, al regista di film ostinatamente stroncati come One on One o Moebius? Senza rinnegare tutto il primo Kim, ma anzi custodendolo avidamente nel nostro cuore, siamo affascinati da questo secondo Kim Ki-duk. Il percorso che si è andato a delineare a partire da Arirang – vero e propria crocevia della sua filmografia - è stato quello di un progressivo, tempestoso, sfiancante disimparare a fare cinema. Arirang era la video-confessione che seguiva l’incidente mortuario sul set di Dream, il cinema stesso che si ritirava dai grandi set per farsi piccolo, fatto in casa, amatoriale. Unico, proprio perché non c’era nessun altro a farlo tranne il regista, libero così di inscenare il proprio dolore, di dar piede a una terapia cinematografica a metà strada tra la catarsi e l’ossessione della propria immagine. Poteva essere l’ultimo film, perché in questa restrizione di campo, in quest’ossessione del dolore, implodeva di fatto tutto il suo cinema. Ma poi, all’improvviso, è arrivato un altro film piccolissimo, Amen. E’ come se qui Kim si fosse sdoppiato, trovando nel suo alter-ego femminile l’ipotesi di una nuova vita: il viaggio in Europa dona lui la forza dell’apolide, la possibilità e l’urgenza di filmare il mondo fuori casa per poter ritrovare l’amore per il cinema e uscire dall’impasse che aveva cristallizzato la sua carriera. Amen rimane, a tutti gli effetti, una sorta di film “in ritardo”, una protesi impossibile, toccante e ultracinefila, della Nouvelle Vague francese. Dopo un film come questo, in maniera ancora più radicale che in Arirang, Kim non potrà più tornare indietro. Ci riproverà, certo, col successivo Pietà, premiato, complesso e discutibile suo ritorno alla ribalta (vincitore del Leone d’Oro a Venezia) eppure anche qui riconosciamo continuamente che Kim non è più lo stesso, che il regista di Bad Guy o di Ferro 3 è davvero lontano. Anzi, potremmo dire che mai come in questo caso si avverte il distacco definitivo dal passato, proprio perché, al contrario delle due opere precedenti, Pietà sembra volersi riconnettere agli schemi narrativi che hanno reso grande il suo autore, ma con almeno due decisive differenze: da un lato l’uso del digitale, segno distintivo della nuova fase registica di Kim Ki-Duk, che dona alle sue immagini una crudezza e un’immediatezza molto lontana dall’estetica raffinata delle opere più manierate. Dall’altro l’orizzonte politico del racconto, chiaro fin quasi al didascalismo: il ruolo corruttivo del denaro (“l’inizio e la fine di tutte le cose”), l’alienazione del lavoro, che porta le vittime a morire nelle fabbriche e nelle botteghe per mano degli attrezzi del proprio mestiere, in un circolo ossessivo della tortura e della violenza che da qui in avanti si farà sempre più oscuro, pessimista, implacabile (pensiamo in particolare a One on One e The Net).
Un congegno narrativo elementare, da cui scaturisce un nuovo restringimento di campo: cinema senza vie di fuga, nella negazione di ogni possibile catarsi o sacrificio. Un cinema, quello del secondo Kim, che nel suo apparente girare a vuoto, nell’infinita ripetizione del gesto, arriva ad interrogarsi come mai prima d’ora sui principi primi (la vendetta, il perdono, il potere, il destino, l’identità, il piacere), mettendo continuamente in scena un conflitto che appartiene più al mondo delle idee che non a quello dei corpi. Perché a fronte di un’evidente radicalizzazione estetica – che porta il regista coreano ad essere pericolosamente e ambiguamente attratto dal martirio della carne – corrisponde uno sguardo più che mai politico, astratto e teorico. Fino quasi a rasentare l’ingenuità, fino a lambire la banalizzazione, ma con un’urgenza di dire, una necessità di fare, un bisogno irriducibile a qualsiasi progettualità o a qualsiasi calcolo che lo rendono senza dubbio più “sincero” e spontaneo rispetto ad alcuni (presunti?) grandi film della prima fase. Il cinema serve Kim (e non viceversa come poteva succedere negli eccessi manieristi de L’Arco) per guardare altro, per imparare altro, per insegnare altro. Siamo sempre più nei territori di una poetica che fa del suo didascalismo un vero e proprio codice morale: quello di Kim è diventato una sorta di teorema, un appello didattico di chi, ormai, non sa che farsene dei bei film, delle belle immagini, delle confezioni già vendibili per l’occidente. Un cinema che adesso agisce e interviene nell’incepparsi del meccanismo, di ogni meccanismo, sociale, economico, politico, giuridico, sessuale e ovviamente cinematografico, come premessa e allo stesso tempo motore inevitabile di ogni racconto. Un vero e proprio cinema-processo in cui interrogare il mondo servendosi dei codici e delle prassi che lo strutturano. Kim ha scelto la strada sgradevole dell’esule che vive ai margini del sistema cinema. Ha imposto la sua ombra. Tutto l’ultimo Kim, di conseguenza, è stato messo in panchina dagli stessi festival e dalla stessa critica che tanto lo osannava (pensate alla reperibilità di un film come Stop). Nel giro di pochi anni Kim è passato da essere il più grande dei registi coreani in occidente al meno vendibile, il più respingente. Qualcosa, chiaramente, è cambiato e noi partiremo proprio da qui. Nelle prossime settimane cercheremo di capire dove sta andando il cinema di Kim Ki-duk, attraverso l’esplorazione degli ultimi Arirang, Amen, Pietà, Moebius, One on One e The Net. Buona lettura!