Abacuc
Cinema in decomposizione: la lenta morte del corpo, del cinema, della cultura e dell'umanità nell'Italia contemporanea.
Iniziare a discorrere del cinema di Luca Ferri e del suo ultimo lavoro Abacuc è complicato, in quanto il suo cinema è un cinema di frontiera, teso tra l’autorialità intellettualistica del suo autore (il contenuto) e la forma che struttura l’idea a sostegno del processo cinematografico, quel concetto necessario da esprimere e condividere con il proprio pubblico. L’idea, appunto, quel meccanismo che genera un procedimento ed un’attuazione. L’idea come processo creativo, messa in pratica cinematografica di un concetto di partenza. Come quel rapporto algebrico tra durata e taglio di montaggio, tra tempo ed immagine in crescita esponenziale, come espresso nel suo precedente lavoro, Ecce Ubu. Un’idea che sarebbe reale in quanto opera concreta, anche se venisse solo condiviso l’utilizzo matematico della formula usata per realizzarla. Come quelle opere pronte ad essere riprodotte seguendo un semplice principio artistico condivisibile. Come i readymade di Duscamp o come le opere in divenire, pensate e concepite ma non realizzate, di Kosuth, o come lo Psycho di Van Sant o come il codice algebrico del montaggio di Ferri.
Partiamo dalle parole dello stesso Ferri rilasciate in un’intervista al Festival di Torino: «Abacuc, o Dario Bacis, come lo si vuol chiamare, ha una forza visiva unica, sembra un dipinto di Piero della Francesca. È il mio ecce homo, un individuo capace di condensare in sé il senso stesso del film: una riflessione sulla condizione del cinema come mezzo espressivo. In quanto sopravvissuto alla catastrofe, che vive nel continuo inseguimento di nulla, Abacuc rappresenta il bisogno dell’arte cinematografica di autoestinguersi e implodere in sé stessa. Non può essere che così, visto il suo stato oggi». Ecco, in questi due periodi, è condensata l’idea di partenza.
Abacuc è il grido funebre e gelido della pura arte cinematografica dell’immagine nel vento impetuoso e livellatore dell’eclissi autoriale italiana. E’ l’ecce homo contemporaneo impresso sulla vastità opulente del corpo, gigantesco e strabordante, del suo interprete, Dario Bacis. E’ il Lògos condensato nella fisicità corporea nell’immagine stessa. Un cicerone dell’oltretomba o un grasso Caronte che accompagna il significato straziante all’interno delle desolanti inquadrature, che riprendono una realtà trasfigurata in morte e decadimento, antiprospettica e (rin)chiusa nel formato del Super 8, in un bianco e nero castigante e metafisico. Lento e decadente come un loop mortifero, un buco nero attraverso il quale filtrare tutto il genio umano. Una voragine che trascina a se, nell’ignoto e nella destrutturalizzazione, tutto un intero bagaglio culturale. Stravinsky, Schönberg, Dio, Abacuc, Adorno, Lacan ed altro ancora, si lasciano trasportare dal verso dell’insensatezza costruendo un loop compulsivo che ne annulla il significato, arrivando a sostantivare tutto, sia la cultura alta che quella bassa, quest’ultima composta solo da nomi generici, volti indifferenziati e mestieri comuni. In un cimitero costruito intorno al mondo, dove le parole dei trapassati perdono di significato e diventano musica, la ripetività apre una voragine canzonatoria impietosa del nostro stato attuale. Le ritmiche ossessive costruite per il film da Dario Agazzi, aiutano e congelare e ripetere l’eco del vuoto che germina nell’immagine. Le sonorità sono ricorsive, acusmatiche, impresse sull’immagini come stencil sonori, sintetici, orchestrando una partitura musicale dove l’immagine cede al contrappunto con l’elemento sonoro gestendone il ritmo. Anche le telefonate sembrano distaccarsi dalla materia vivendo in uno stato semi-indipendente dall’inquadratura. L’oggetto non produce suono, la voce non produce significato ma tutto diventa fluido impasto musicale. Dario Bacis viene rappresentato come un nuovo Adamo in un giardino dell’Eden gelido, postmoderno, simmetrico, senza alcuna via d’uscita, un giardino cimiteriale confinante dell’essere umano. Abacuc, non solo riflette l’immagine morente dell’uomo ma è specchio dell’arte, della cultura, della politica, della società civile italiana attuale. La figura pesante di Abacuc è sinonimo di inattività, è l’impossibilità di azione in un mondo in lenta conflagrazione, è la grande mostruosità che si aggira su San Pietro, la fine imminente di un’Italia in lenta e straziante agonia. E’ la morte di tutto: è la morte dell’immagine, la morte del significato, la morte del cinema, la morte della bellezza, la morte dell’alterità. E’ impossibile arrivare a distinguere l’altro da noi stessi, la parte femminea di una divinità, il sesso che struttura la specie, Abacuc ama solo Abacuc. Adamo ed Eva sono la stessa persona, fusi ed ingombranti. Ferri sembra ricordarci che bisogna conoscere per poter sovvertire. Attraverso la conoscenza si può arrivare a negarla, ricostruirla e destrutturarla. E Ferri conosce, tanto e bene, da riuscire appieno nella sua impresa restando fedele all’idea primigenia.
Sarebbe bello immergersi sotto la superficie del cinema italiano ed accorgersi che sotto le macerie di un corpo morto, settario, inadeguato, in lenta putrefazione ma ancora non estinto, ci sono artisti che urlano il loro linguaggio e la loro espressione in maniera personale, viscerale e sincera. E ce ne sono molti, da Manuli a Frammartino, da Cioni a Ferri, a Ferraro, e tanti altri, che producono qualcosa di ostinatamente contrario e diverso, producono la loro arte cinematografica senza compromessi, con l’onestà di chi conosce ed ama il proprio mestiere di artista. E sarebbe interessante notare come tutti questi nomi si esprimono su un terreno sperimentale, usando un linguaggio di frontiera; un linguaggio personale, visionario, documentale, celebrale, naturalistico ma comunque rigorosamente differente rispetto al siffatto gusto egemone; figlio di un decadimento culturale massificato. Sarebbe bello arrivare ad interrogarsi riconoscendo a Ferri l’intensa capacità di sintesi ed astrazione, quella vorticosa e nauseabonda sensazione di vuoto, quel disturbante rigetto inconscio verso lo status quo che sovviene dopo aver visto il suo Abacuc. Se sentite dentro di voi riecheggiare la sua eco, quel grido sgraziato e desolante dovuto ad un’esclusione che non vi aspettavate o se vi sentite come di fronte alla distruzione causata da un catastrofico cataclisma generazionale; se questo vi arriva, al di la di ogni qualsivoglia consolazione narrativa, significa che Abacuc vi ha parlato e voi, inconsciamente, lo avete ascoltato e fatto entrare.