Una societa' di servizi
L'architettura di linee umane in un asettico karaoke geometrico
Edwin Abbot Abbot in Flatlandia – novella distopica euclidea del 1884 – rappresentava l’umanità attraverso delle forme geometriche che su di un piano bidimensionale fondavano la loro cultura e la loro società in maniera tale da non consentire l’evoluzione del pensiero, diverso dalla loro "fede piana", attraverso l’osservazione della terza o quarta dimensione. Società che vive, si restringe, si costringe solo dentro due uniche coordinate spaziali cartesiane: ascisse ed ordinate. Nel mediometraggio Una società di servizi di Luca Ferri in collaborazione con Enrico Mazzi le coordinate attraverso le quali osserviamo un grande centro di servizi ed attività umane giapponesi, sono pelopiù le stesse. L’Homo Sapiens di Ferri è destinato a vivere dentro delle specifiche costrizioni esistenziali. L’architettura (Magog; Una società di servizi), il cinema (Abacuc), la tecnologia (Cane Caro), entità frustranti e rigide all’ego fluido, Super-io sociali di stampo freudiano, che impediscono all’Es di comunicare con l’Io. Umanesimo esistenziale rinchiuso in gabbie regolari, in protocolli ottusi e duri, dentro l’ordine geometrico delle forme che l’occhio osserva e riconosce, inconsciamente, come meravigliosi limiti funzionali in organismi biochimici (im)perfetti. La scelta di ricondurre all’ordine geometrico dell’architettura una società come quella giapponese si tramuta in una scelta adottata per sottintendere il rigore e la disciplina nipponica all’interno di griglie cartesiane; all’interno delle quali l’umanità (intera) che vive e cammina e comunica, diventa parte integrante della composizione finale assoggettata alla regola, all’efficacia ed all’efficienza. Certezza, durabilità, inflessibilità, rigore...bellezza? Serenità? Domande queste che l’osservatore si pone senza darsi una risposta univoca. Come un entomologo Ferri classifica il genere umano dentro delle teche di vetro, precise e regolari, riuscendo ad unire all’habitat ricreato sia il carattere pop sia lo sperimentalismo povero, e politico, di un Tretti o di un Questi; un diorama per piccole creature, così precise, esatte e funzionali che come formiche si muovono dentro un formicaio ben organizzato. Una società di servizi è anche un’opera partecipativa che instaura con lo spettatore un rapporto bidirezionale di partecipazione e completamento. Un’opera aperta, come la definiva Eco, scrivibile come la definiva Barthes, concettuale, che considera al suo interno uno sforzo integrativo sia ad un livello riflessivo che pratico. Nel finale una dolce melodia extradiegetica subentra nelle immagini, una melodia composta dal musicista simbolista francese Claude Debussy, Beau Soir, mentre in sovrimpressione scorrono le parole del poema di Paul Bourget, un karaoke muto che lo spettatore può – e deve, per completare la visione e la fruizione – cantare frontalmente sul primo piano di un giapponese poggiato davanti ad un distributore di prodotti e cibarie colorate. "...Car nous nous en allons, comme s’en va cette onde, elle à la mer, nous au tombeau." ("...Poichè noi ce ne andiamo, come se ne va quest’onda, ella verso il mare, noi verso la tomba")
Un finale aperto, a ricordarci che siamo anche noi parte di un tutto naturale ed organizzato, e mentre l’onda continua a nascere per morire in mare, fluida e perpetua sull’eternità ricorsiva, l’umanità è destinata anch’essa al suo ciclico destino, dalla terra sulla terra nella terra, dentro una geometrica costruzione umana in legno, da sotterrare in fosse o loculi anch’essi regolari e simmetrici: funzionali tombe – in un ritorno all’architettura, che coincide con la nostra stessa fine.