Pasolini/Ferrara - Frammenti corsari in salsa piccante
Il film di Ferrara ci racconta per schegge e frammenti Pasolini e il suo lascito ereditario. E lo uccide sì una seconda volta, ma per amore. Perché “i maestri vanno mangiati in salsa piccante”.
«Non bisogna più aver paura – come giustamente un tempo – di non screditare abbastanza il sacro o di avere un cuore»
PPP, Corriere della Sera, 18 marzo 1973
Delle tante critiche pervenute al film di Abel Ferrara – “film ingenuo”, “film che nulla aggiunge alla figura di Pasolini”, “film che lo uccide una seconda volta” – molte sono state preventivamente calcolate dal regista, che vi risponde con una delle prime sequenze, l’ultima intervista video realizzata per l’uscita francese di Salò. "Essere scandalizzati è un piacere, chi rifiuta il piacere d’essere scandalizzato è un moralista". Citando fedelmente l’oggetto della sua inchiesta, Ferrara sembra da subito sovrapporsi a Pasolini, in una sorta di muto e disperato dialogo, come quello del cattivo tenente col suo Dio silenzioso e assente.
Questo spostamento dall’autore al suo personaggio muove emotivamente l’intero film, ritornando in ogni momento-chiave e soprattutto nell’altra grande intervista ripresa, quella a Furio Colombo, dal funereo presagio “Siamo tutti in pericolo”. Con mirabile equilibrio l’addiction di Ferrara per il cinema scivola impercettibilmente nel discorso pasoliniano: anche lui, come Pasolini, sembra essere sceso ogni notte all’inferno e aver visto cose che non turbano la pace degli altri. Citazioni interscambiabili tra i due, culminanti in quel "Farei film anche se fossi l’ultimo uomo sulla terra", fluido sigillo del regista americano al pensiero pasoliniano. Allora questo Pasolini, pur costituendo un sentito, ulteriore tassello dei viaggi al termine della notte, da 4:44 Last Day On Earth a Welcome to New York, che appaiono l’ossessione tematica dell’ultimo Ferrara, si rivela come un’opera tutt’altro che ingenua, tutt’altro che immediato tributo del regista americano a uno dei suoi miti.
È invece un film corsaro, nell’accezione data all’aggettivo dallo stesso PPP, nella prefazione alla sua raccolta di articoli scritti per il Corriere della Sera: "Io non ho alle spalle nessuna autorevolezza: se non quella che mi proviene paradossalmente dal non averla o dal non averla voluta; dall’essermi messo in condizione di non avere niente da perdere e quindi di non essere fedele a nessun patto che non sia quello con un lettore che io del resto considero degno di ogni più scandalosa ricerca". Sostituendo al lettore lo spettatore, nuovamente le parole di Pasolini appaiono perfetta descrizione dell’operazione ferrariana. Non c’è in questo Pasolini nessuna autorevolezza o pretesa assunzione di verità (sempre nell’intervista a Colombo, Pasolini si scuserà addirittura dell’uso del termine, rimediando con “evidenza”). Solo un patchwork, o un pastiche, per chi preferisce definizioni postmoderne già obsolete, di immagini iconografiche, stralci di romanzi, versi, pettegolezzi, tratti da un immaginario tramandato e condiviso e rimessi in circolo.
Analogamente all’appello - sempre nella prefazione di Scritti corsari - di Pasolini al lettore, cui affida la ricostruzione di un libro composto di frammenti di un’opera dispersa e incompleta, Ferrara coglie proprio questa dimensione frammentaria di Pasolini, comune tanto alla produzione intellettuale quanto alla sua stessa esistenza, facendone l’essenza stessa della sua operazione. L’intellettuale, il peccatore, il figlio, il maestro: ritratti che, coadiuvati dalla doppia scelta linguistica - l’inglese borghese-razionale, l’italiano lingua del cuore e del corpo - rimarcano ancor più la loro giustapposizione, la loro aritmia interna. Una discontinuità paradossalmente organica, per cui bisogna tornare di nuovo all’intervista su Salò: sequenza dal valore programmatico, ri-filmata alla lettera, con la stessa inquadratura, quel primissimo piano con la mano a tenere l’auricolare per la traduzione dal francese, conclusa sul Dans le passeport j’écris simplement écrivain. Quale definizione preferisce Pasolini? Saggista, critico, giornalista, romanziere, regista? Soltanto scrittore, termine ombrello che riassume in sé ogni anima, ogni sfumatura. Una definizione sfuggente per una figura che durante tutto il film si dà continuamente per negazione. Vivendo in uno spazio metonimico, posseduto dagli oggetti feticcio che permettono a Dafoe di evocare Pasolini pur non somigliandogli. O abitato da quei personaggi ancora solo imbastiti, come il Carlo di Petrolio – summa teorica della creazione frammentaria siamo in un periodo di lutto, il romanzo così come lo conosciamo non esiste più. Sarà lettere, articoli e cronaca insieme – e i protagonisti di Porno Teo Kolossal, che ne prolungano l’ombra, il lascito testamentario (la fine non esiste).
Lavorando allo stesso modo sui luoghi, questa Roma notturna ritagliata con scorci obliqui, quasi fosse una quinta espressionista, Ferrara filma il suo personale I’m not there sull’icona pop Pasolini, ritroso come una rock star, raccontato dagli altri: dimenandosi, da corsaro, tra scritti primi e scritti integrativi, per cui ai passaggi centrali, inamovibili, sul protagonista (le interviste, la scrittura, il montaggio, l’ultima notte) si sovrappongono gli sguardi rapaci della madre, le danze esibizioniste di Laura Betti, le sfide intellettuali degli intervistatori, l’accondiscendenza dei ristoratori e il latente disprezzo dei giovani proletari.
Ferrara cerca di rievocare il “paradosso-Pasolini” alla stessa maniera di Dino Pedriali, che lo ritrasse proprio nel 1975, tra le dune di Sabaudia e il casale-studio di Chia. Una serie di scatti che il regista americano sembra aver studiato attentamente per dare corpo alla sua iconografia: tutta la prima, bellissima descrizione del tavolo di lavoro pasoliniano, con la lettura del giornale, la corrispondenza, e infine la scrittura per appunti e stralci, viene filtrata dalle immagini pubblicate, ormai postume, dal giovane fotografo. Citazioni letterali, che rendono conto dello studioso e dell’uomo privato, quello ritratto sul pontile di Sabaudia, con occhiali da sole e camicia jeans, nel pieno di una debolezza von aschenbachiana. Della serie di Pedriali mancano gli scatti più scabrosi, quelli sceneggiati dallo stesso Pasolini, che si fa fotografare nudo immerso nella lettura di un libro, come fosse un’immagine rubata. Ma del resto Ferrara non vuole dare un corpo a Pasolini. Proiettandolo in mille schegge sui suoi fantasmi autobiografici – nelle diaspore di Carlo Di Tesis ed Epifanio, nel suo ultimo giorno sulla terra ha solo il compito di condurlo all’Idroscalo di Ostia, per ucciderlo sì di nuovo, come qualcuno involontariamente ha indovinato. Ma non attraverso la supposta volgarità di un’opera, in realtà estremamente elegante nelle sue stratificazioni, bensì per troppo amore. Quello in virtù del quale, i maestri vanno uccisi e mangiati, in salsa piccante, come recitava la sceneggiatura di Uccellacci e uccellini (citata da un bel libro di Marco Belpoliti di qualche anno fa) perché vengano digeriti meglio. E senza paura di screditare il sacro, purché si abbia un cuore.