Bardo, falsa crónica de unas cuantas verdades
Iñárritu non prevede la presenza del pubblico e forse neanche la desidera; è un cinema che non costruisce spazi da abitare ma palchi su cui esibirsi, a misura per un unico inquilino, demiurgo e architetto di sé stesso e del suo sguardo. Irricevibile.
C’è un momento di Rumore bianco – presentato come questo Iñárritu in concorso a Venezia 79 – in cui alcuni professori universitari, ritratti con sarcastica cattiveria nei loro avviluppi narcisistici, confessano di soffermarsi spesso a immaginare il proprio funerale, pur sapendo che di tali fantasie si alimentano i tratti più vanesi del loro egocentrismo. È un piacere innegabile e perverso chiedersi quali coreografie e rituali innescherà la propria assenza tra amici, estimatori, colleghi e avversari. Uno dei tanti modi di fare della propria mente un mondo, e sé stessi il centro. Bardo, falsa crónica de unas cuantas verdades, , non è altro che tale fantasia ipertrofizzata a dimensioni gargantuesche, incontenibilmente autoindulgenti, onnicomprensive, sviluppata nel tentativo, clamorosamente fallito, di far dialogare la rappresentazione immaginifica delle idiosincrasie personali con il trauma collettivo della nazione, il Messico, nel suo rapporto dolente con Europa e Stati Uniti in termini di immigrazione, povertà, conquista militare e genocidio. Ma quello di Alejandro González Iñárritu è un cinema troppo abituato a pensarsi in termini di performance, di applauso, troppo innamorato di sé e dei propri difetti per riuscire a rivoltare l’autoanalisi in discorso pubblico. Solo immaginare che in queste immagini vi sia peso politico, che da questa finta e ombelicale epica del privato sia possibile trarre pensiero complesso riguardo il pubblico, è pura fantascienza, una chimera di aspirazioni mal riposte, confusamente fuori traiettoria e masturbatoria.
Giunto al culmine del suo potere produttivo e commerciale, dopo una carriera insensatamente omaggiata e con pochi, davvero troppo pochi, momenti di verità, dolore, efficacia di un’espressione per immagini che non sia sforzo tecnico esibito, Iñárritu cerca di fare il suo Otto e mezzo, il suo film-mondo, ma quello che solo gli riesce è fraintendere Fellini e scambiare l’autoanalisi con l’autocompiacimento, l’intelligenza poetica con l’esibizione virtuosistica, facendo un film-mente a immagine di sé e sé solo, che non prevede alcun rapporto con lo spettatore che non sia nei termini di indulgenza, ammirazione, riconoscimento filiale del genio.
Bardo è la storia di un giornalista messicano che, avendo avuto successo negli Stati Uniti come documentarista politico e di denuncia, si trasferisce negli USA per vivere e lavorare, fino a che la principale associazione di categoria del paese non decide di dedicargli un Premio alla carriera, giustificato in realtà da motivazioni politiche (Amazon è sul punto di privatizzare la parte settentrionale del Messico, la premiazione del protagonista alter ego di Iñárritu serve quindi a preparare il necessario terreno culturale a quest’acquisizione). Da questa circostanza si avvia il film, un viaggio onirico lungo tre ore, al confine tra ricordo e metafisica, allucinazione e sogno, in cui il desiderio di Iñárritu, indubbiamente sincero, di mettersi a nudo, svelando insicurezze e paranoie, ossessioni e limiti – come già faceva Birdman, assai vicino a questo per il ruolo svolto dalla sindrome dell’impostore – non si libera mai dal bisogno impellente di imporre allo spettatore una sola direzione di sguardo, rivolta su di sé e sé solo.
C’è una scena esemplificativa di tale contraddizione, e riguarda un dialogo tra il protagonista e un suo opponente, nella quale, meta-cinematograficamente, si rinfaccia all’alter ego del regista una serie di soluzioni formali fin lì applicate da Iñárritu stesso e parte quindi del film visto sino a quel momento sullo schermo. Sembrerebbe autocritica ma è solo autoindulgenza, perché Iñárritu si rimprovera solamente aspetti superficiali, didascalici, che sembrano esser stati inseriti apposta per sorreggere questo momento auto-confessionale, mentre le basi del suo cinema restano non solo intoccate ma rilanciate esponenzialmente dalle due ore successive di visione. Il film cerca così di affrontare il rapporto tra realtà e finzione, ego e dato di realtà, dramma personale e stato psichico della nazione, ma il tutto è dispiegato con superficialità sconfortante e reiterata inconsistenza. Oltre che l’eccesso onanistico di tecnica, struttura, presenza autoriale, il problema qui è la portata della riflessione messa in campo, che non regge il colpo di nessun eccesso stilistico perché è anima spenta di un film nato vecchio, inerte. Restano brevi momenti di confronto familiare attorno al protagonista, attimi di verità nel guardare e nel sentire i personaggi, ma c’è tutto un film da perdonare, dimenticare, subire, per riuscire a costruire su di essi una qualunque relazione empatica, qualunque legame spettatoriale. La verità è che siamo intrusi, Iñárritu non prevede la presenza del pubblico e forse neanche la desidera; è un cinema che non costruisce spazi da abitare ma palchi su cui esibirsi, a misura per un unico inquilino, demiurgo e architetto di sé stesso e del suo sguardo.