The Son
Zeller torna a raccontare i legami famigliari e le malattie della mente, un caos emotivo che il regista cerca di catturare, per contrasto, con una ferrea compostezza formale.
Reduce dal successo del suo primo lungometraggio, The Father – Nulla è come sembra, grazie al quale ha ottenuto l’Oscar per la miglior sceneggiatura non originale, il drammaturgo e regista francese Florian Zeller sceglie, per la sua seconda fatica cinematografica, di adattare un’altra delle proprie opere teatrali. Se il suo primo film era basato sul testo Le Père, qui compie un salto generazionale e realizza The Son, trasposizione di Le fils. Opera, questa, pubblicata nel 2018 come terzo ed ultimo capitolo di una trilogia dedicata al tema della famiglia che comprende anche La Mère e, appunto, Le Père. Apparentemente, il figlio del titolo si direbbe essere l’adolescente Nicholas, il quale per via di conflitti con la madre chiede di poter andare a vivere con suo padre Peter, un avvocato di successo ora legato ad un’altra donna e con un bambino appena nato da gestire. La convivenza con il genitore reo di averlo abbandonato, però, non placa la confusione nella testa di Nicholas, che sempre più inizierà a manifestare pensieri e comportamenti autolesionisti. Proprio nei suoi tentativi di aiutarlo, Peter emergerà a sua volta come il figlio del titolo, segnato anch’egli da un problematico rapporto col padre, al quale aveva giurato di non voler mai somigliare.
Dopo aver affrontato la demenza senile che affliggeva il protagonista del suo primo film, Zeller torna dunque a raccontare la malattia quale evento capace di minare le fondamenta di una famiglia. Anche in questo caso, il male che affligge il giovane Nicholas è invisibile all’occhio umano e proprio per questo tende a essere sottovalutato. A partire da quest’impossibilità di vedere concretamente il problema del ragazzo, Zeller sceglie di costruire il suo film con una compostezza formale che mira a suggerire un senso di controllo e quiete, proprio quello che Peter va ricercando nel corso dell’intero racconto. Eppure proprio dentro tale rigore si annida il nemico. Un avvertimento di ciò dovrebbe darlo anche il fatto che film è interamente girato in ambienti interni, chiusi, che in un certo senso sembrano limitare lo spazio vitale dei protagonisti. Viene così a costruirsi, immagine dopo immagine, un forte contrasto tra questa rigida messa in scena e lo sconquassato mondo emotivo che Nicholas invece vive. Ma allo spettatore come a Peter non è mai concesso di entrare nella mente del ragazzo, di potersi immedesimare nei suoi dolori. Zeller, piuttosto, fa di tutto per tenerci distanti da lui. Ciò non solo ribadisce la difficoltà di costruire un dialogo sul tema della depressione giovanile, ma anche che il vero protagonista verso cui rivolgere lo sguardo è Peter.
Alla metà esatta del film questi si svela essere non solo padre, ma soprattutto figlio di quello stesso personaggio interpretato da Anthony Hopkins in The Father. Nella scena che li pone a confronto, Zeller conferma poche semplici scelte di regia, che ci presentano un Peter costantemente posto all’angolo delle inquadrature, con suo padre che ne occupa come un’ombra la restante metà, affermandosi poi invece come protagonista assoluto di quelle a lui dedicate. Il dialogo tra padri e figli risulta dunque essere continuamente destinato al fallimento, data una mancanza di predisposizione a mettersi nei panni dell’altro. Il desiderio di non commettere gli errori dei padri non fa necessariamente dei figli dei buoni genitori; attraverso l’immagine ricorrente di una lavatrice in moto come simbolo di una circolarità ininterrotta, Zeller sottolinea la difficoltà a evadere da questo schema che si tramanda di generazione in generazione.
Facendo della sua una regia invisibile, che non si intromette mai tra i personaggi per sottolineare o spettacolarizzare il loro dolore, Zeller lascia dunque a loro il compito di esprimere ciò che possono attraverso le parole e i gesti, e quando non è più possibile descrivere le proprie sensazioni ecco che subentra un lancinante silenzio. Difficile non riconoscere che The Son manchi di compiersi fino in fondo, non riuscendo a riproporre gli elementi che avevano reso coinvolgente e straziante il dramma del protagonista di The Father. Ma forse proprio in questo suo portare lo spettatore a vivere una confusione che è propria anche di Peter, sta il suo punto di forza, ribadendo la difficoltà di rapportarsi con quelle malattie “invisibili” della mente, più difficili da diagnosticare e guarire.