Morto per un dollaro
Hill torna dietro la macchina da presa con un western atipico e contraddittorio che, nonostante tutti i limiti, conferma l'amore del regista per il cinema di genere e il suo potenziale di provocazione.
Nel 2006 Walter Hill incantò il pubblico del Torino Film Festival, proiettando l'ambiziosa Broken Trail - Un viaggio pericoloso. Si trattava di una sontuosa miniserie tv dal respiro cinematografico e le suggestioni fordiane, che segnava il ritorno del regista "di frontiera" alle sue radici (“I cavalieri dalle lunghe ombre”, “Wild Bill”) dopo la parentesi fantascientifica di Supernova e quella pugilistica di Undisputed. Schivo di carattere e poco incline ai compromessi – come i suoi personaggi – Hill sbalordì i presenti con un western epico, spietato e crepuscolare, sul tema della tolleranza tra i popoli e il tramonto degli ideali americani, impreziosito dalla presenza di Robert Duvall nei panni di un cowboy rude e disilluso, in fuga da un mondo "civilizzato" che aveva barattato la libertà in cambio del profitto. Un ruolo che - sotto molti aspetti - sembrava rievocare e portare a termine il viaggio già intrapreso dall'attore nello splendido Open Range - Terra di confine diretto da Kevin Costner nel 2003. Da quella fatidica visione sono trascorsi quasi vent'anni, prima che Walter Hill tornasse a dirigere un nuovo film western, forse l'ultimo della sua lunga e turbolenta carriera: Dead for a Dollar - Morto per un dollaro, presentato fuori concorso in occasione della 79ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia e ora disponibile per lo streaming on-demand.
Impostato come un classico b-movie dall'impianto solido, il budget limitato e la scenografia minimale, il film sfoggia un cast eccellente che vede schierati in primo piano Christoph Waltz, Willem Dafoe e Rachel Brosnahan. È proprio quest'ultima l'indomita protagonista della pellicola, una giovane donna, fiera e indipendente, fuggita in Messico con il suo amante - un disertore di colore - per sottrarsi alle grinfie del marito, subdolo uomo d'affari che per vendicarsi è disposto a tutto, anche a ingaggiare un integerrimo bounty killer accompagnato da un "buffalo soldier", come venivano chiamati dai nativi i soldati afroamericani arruolati nell'esercito. Tuttavia nessuno dei protagonisti è a conoscenza del fatto che in molti siano sulle tracce dell'insolita coppia di fuggitivi, compresi un pericoloso bandito messicano e un giocatore d'azzardo senza scrupoli.
Come ha tenuto a ribadire in numerose interviste, Hill non era interessato a girare un western tradizionale, nel senso ortodosso del termine, e per questa ragione ha deciso di attingere ad alcune problematiche strettamente attuali per raccontare una bizzarra storia di amore e morte, razzismo ed emancipazione femminile, ambientando la vicenda agli sgoccioli dell'Ottocento, quando nulla o quasi era rimasto del celebre "vecchio e selvaggio" West tanto caro a lui e gli spettatori. Nonostante ciò, il film è concepito come l'omaggio spassionato di un fan al cinema di Budd Boetticher, un autore ingiustamente trascurato che tra gli anni Cinquanta e Sessanta attirò l'attenzione della critica, in particolar modo quella europea, grazie a una manciata di western esemplari ("I sette assassini"), quasi sempre scritti da Burt Kennedy ed interpretati da Randolph Scott. La sua abilità era quella di riuscire a tratteggiare personaggi dalla psicologia semplice ma non banale, dentro trame apparentemente semplici che mettevano in risalto la profondità dei suoi eroi solitari e il valore simbolico delle sfide che questi si trovavano ad affrontare.
Paradossalmente è proprio il confronto con l'opera di Boetticher a sottolineare le evidenti lacune di Dead for a dollar, una pellicola che dal primo scambio di battute fino all'inevitabile duello finale si dimostra purtroppo priva di qualsiasi slancio e tensione emotiva. Infatti, se escludiamo la violenza esplicita degli scontri a fuoco (che restano il fiore all'occhiello di Hill), non c'è un attimo in cui il pubblico venga davvero coinvolto da quello che accade sullo schermo, tanto meno dai moti interiori che dovrebbero animare i protagonisti. Ogni elemento della storia sembra partorito per inerzia: i ruoli sono prestabiliti, i ritmi prevedibili e la risoluzione data per scontata. Durante la visione si avverte quasi costantemente la sensazione che tutto quello che vediamo sia stato opportunamente riveduto e corretto per risultare inoffensivo, dalle azioni alle parole, soprattutto quando si tratta di approfondire il conflitto razziale attorno a cui dovrebbe strutturarsi l’intreccio. Il problema non è soltanto di natura semantica: nella situazione descritta l’utilizzo dell’espressione “man of colour” risulta inappropriato tanto storicamente quanto sul piano concettuale, perché questa scelta di assecondare una sensibilità progressista fuori luogo è ostentata pur non venendo mai contestualizzata e sviscerata ai fini della narrazione. Nel corso del film questa stridente operazione di grammar wash risulta ancora più evidente e contraddittoria se prendiamo in considerazione come il dispregiativo "whore" - contrariamente alla controversa n-world - non solo non viene eliminato dal vocabolario dei cowboy ma addirittura diventa l'epiteto utilizzato più frequentemente nei confronti dell'unica protagonista femminile della vicenda in relazione alle sue abitudini sessuali. Un atteggiamento insolito da parte di un autore anticonformista come Hill, che in passato ha saputo trasformare le differenze di classe, genere ed etnia dei suoi personaggi, sempre composti da una coppia di opposti, in punti di forza - pensiamo solamente alla dinamica di 48 ore - senza dover rinunciare per questo a quel senso del ritmo, a quel gusto per la provocazione e ironia sul filo della scorrettezza, diventati in breve tempo i suoi marchi di fabbrica.
Nell’arco della sua intensa attività di regista, Hill non hai mai smesso di coltivare la sua passione viscerale per il cinema di genere, anzi lo ha celebrato, contaminato e declinato in ogni possibile accezione, dal poliziesco metropolitano al neo-noir, dal road-movie al musical per poi tornare ciclicamente al suo primo – forse l’unico – grande amore: il western, contribuendo con i suo lavori a rivitalizzare il genere cinematografico più longevo e significativo di Hollywood quando tutti lo consideravano rantolante, se non addirittura morto e sepolto. Nel bene e nel male ne è una testimonianza attendibile anche quest'ultimo film Dead for dollar. Forse per questa ragione è lecito concedergli una possibilità, o forse perché è arrivato semplicemente il momento di prendere atto che ad ottant’anni, di cui cinquanta dietro la macchina da presa, Walter Hill non ha più bisogno di dimostrare niente a nessuno per essere ricordato in futuro come uno dei registi di culto della sua generazione, sulle orme del maestro e nume tutelare Sam Peckinpah.