Annientamento
Nella titanica impresa di trasporre la Trilogia dell’Area X di Jeff Vandermeer, Alex Garland ne esce livido ma cinematograficamente vincitore.
Annientamento, Autorità, Accettazione. Sono questi i titoli dei tre volumi che compongono la Trilogia dell’Area X di Jeff Vandermeer; opera letteraria di impareggiabile stratificazione, multiforme, infettiva, punto di arrivo apicale di un nuovo, ed insieme vecchio, stile letterario: il new weird.
Corrente dapprima letteraria, caratterizzante poi un nascente appeal cinematografico, il new weird unisce gli echi di trasversali universi linguistici, è fantascienza ma non solo, è anche horror, è speculazione scientifica, è un’operazione nostalgica disseminata nei vari riferimenti a Lovecraft o a C.A. Smith (padri del weird), è trattato filosofico, ecologico, psicologico, è una caduta luciferina impuramente (dis)umana. Derivante dall’inner space ballardiano, l’Area X è lo specchio dell’immensità spaziale che risiede nel cuore dell’uomo moderno. Scandagliando le profondità dell’universo che è in seno all’umanità, il sonar cardiaco non può che tracciare forme ancestrali, subumane, delle pulsar che emettono bagliori nascenti dall’inconscio, quasar sanguigne dalle quali nascono onde radio di definitiva tensione lacerante. La Trilogia dell’Area X è stata un uragano letterario che ha scosso le fondamenta del genere in questione, una forza tellurica in grado di sconvolgere le menti e gli animi dei lettori, capace di diventare un bestseller nonostante il suo genere di riferimento non sempre sia riuscito ad imporsi.
Come avvicinarsi, cinematograficamente, ad una trasposizione simile? Alex Garland, autore e regista già pratico del genere fantascientifico speculativo, conoscitivo e filosofico – ampiamente apprezzato per il suo film d’esordio Ex Machina – sembra essere il nome giusto, la giusta personalità in grado di rivolgere le stesse infettive domande che Vandermeer aveva proposto nella sua serie di romanzi. Ma, anzitutto, ci accorgiamo ben presto che Garland realizza un film che può considerarsi conclusivo, narrazione che si apre e si chiude, scelta poco adatta all’organicità di una narrazione che racchiude tre romanzi più che mai omogenei uno con l’altro. La struttura dei tre libri appare radicalmente modificata, con un intervento che semplifica il tutto e lascia dietro di sé conseguenze determinanti.
Se il primo capitolo letterario è una discesa nei paradisiaci inferi ecologici in prima persona, un viaggio allucinato, ed allucinante, nella mente umana e nel linguaggio virale di un’entità aliena che riscrive il passato e il futuro dell’umanità, il secondo libro già oggettivizza la storia, creandone il contesto, il paesaggio narrativo, e nell’uso della terza persona riesce a definire le meccaniche narrative dell’incubo vissuto dalla biologa. Il terzo libro (forse il migliore) unisce le differenti anime esposte dai due precedenti, creando una narrazione soggettiva nel ricordo del guardiano del faro al quale affianca il racconto oggettivo legato all’evoluzione diacronica della storia. La Trilogia dell’Area X, così come l’ha pensata e scritta l’autore statunitense, è un blocco monolitico, inscindibile, che possiede una struttura ben definita, che avanza con la stessa cadenza programmatica di una procedura malsana, un protocollo di annientamento definito tramite l’autorità di uno scrittore consapevole dell’enormità, e complessità, della sua opera; definendola in un processo di accettazione della mutazione che ha inizio con il Verbo, e solo successivamente prosegue nella biologia, e psicologia, dell’animo umano.
Assodato ciò, cosa resta e cosa manca, cosa aggiunge Garland alla visione di Vandermeer? Poco, se consideriamo come prima cosa che Annientamento riduce gli elementi di una narrazione perfetta, giungendo all’omissione di un personaggio che rappresenta il concetto linguistico di contagio, e che crea sulla carta un legame indissolubile con un’altra opera letteraria da poco trasposta al cinema, contenuta in Storie della tua vita di Ted Chiang e risolta sul grande schermo da Denis Villeneuve: Arrival. E se nel nostro caso il linguaggio è tramite di un’epidemia biochimica, in Chiang il linguaggio è un babelico ponte attraverso il quale giungere alla comprensione di un’alterità sconosciuta, che sia una specie dell’altro mondo (come nel racconto che dà vita al film) o che sia nei confronti di Dio stesso e del suo regno dei cieli, una sommità solida dell’intero creato, volta celeste oltre la quale si giunge, eternamente, alla singolarità e solitudine dell’intera umanità (Torre di Babilonia). Prima ancora di essere dei corpi in movimento, prima ancora di rappresentare esseri biologici con del passato (tragico) alle spalle, le protagoniste di Annientamento sono delle funzioni scientifiche: la biologa, la psicologa, l’antropologa, la topografa; sono modelli di scienza empirica date in pasto alla disfunzione virale e linguistica dello Scriba, entità amanuense che trascrive negli organici intestini della torre le parole infestanti di una nuova apocalisse. Ma questo personaggio nello screenplay di Garland viene – purtroppo – completamente a mancare. Se per Vandermeer l’infezione è data dal linguaggio che si insinua nella carne trasformando, o corrompendo, il DNA della natura e dell’umanità in una nuova forma organica capace di risplendere dicotomicamente, sia nella propria sublime bellezza naturale sia nella lovecraftiana mutazione cellulare, in Garland la mutazione è soltanto una metamorfosi autofaga, una scissione cellulare in un doppio malefico (William Wilson docet) che tende a muoversi rispecchiando le caratteristiche fisiche dell’organismo primario. E non basta a sopperire questa mancanza, cinematograficamente adattativa, la presenza di elementi passionali legati da una parte alla fantascienza colta (L’invasione degli ultracorpi di Jack Finney, l’apprezzabilissimo rimando alla cristallizzazione de La foresta di cristallo di J.G. Ballard) e dall’altra alla scienza d’inchiesta e speculativa (Natalie Portman legge La vita immortale di Henrietta Lacks di Rebecca Skloot); resta bruciante l’esclusione di una delle rappresentazioni più riuscite del male cosmico post-lovecraftiano.
La tensione narrativa che deriva dallo Scriba è nel racconto lo specchio ancestrale dentro il quale affogare le proprie colpe; questi è un maligno e misterico essere che si nutre delle nefandezze dell’animo umano diventando esso stesso massa cancerogena di un’umanità che non si riconosce più nel suo ecosistema; avendo perduto l’intimo rispetto del proprio pianeta essa agisce nel distruggerlo, autodistruggendosi. La natura del film di Garland è il riflesso di un mondo che ha due anime, l’elemento paradisiaco legato alla meraviglia del geneticamente trasformabile e l’elemento luciferino della mutazione macroscopica e catalizzatrice di una distruzione cellulare. Ma la complessità dell’opera letteraria è anche ma non solo questo. La tensione derivante dal mascheramento dello straniero, dell’Altro che ci assomiglia ma che è nient’altro che una copia del primevo organismo, non è riproposta come nucleo misterico nell’Area X tradotta da Garland, un’alterità questa che si stempera in personaggi secondari che non riescono, nel film, a possedere una stratificazione tale da risultare tensiva. La caccia all’alterità dello straniero, una caccia che si consuma prima di tutto psicologicamente, è qui contenuta dentro ad una sola scena che non riesce a definire il terrore della scoperta e dell’inganno. Garland sceglie di mantenere in vita il marito della psicologa (qui interpretato da Oscar Isaac) - rispetto al solo ricordo che nel romanzo la protagonista possiede di lui - e lo usa come motore del viaggio dell’eroina nonché come catarsi finale tesa al riconoscimento dell’alterità ricevuta dal bagliore condiviso, diventato ormai il fuoco che unisce in comunione due anime che si riconoscono nel mistero svelato. Per Garland la chimica cellulare dell’umanità è parte consapevole di una scelta floreale tesa ad imitare la forma umana tramite un arbusto fiorente, esito finale di una genesi frattale in una caleidoscopica essenza multiforme e colorata, definizione nucleica di un’intelligenza non solo artificiale (come accadeva in Ex Machina) ma biologica, definitivamente naturale ed iscritta nel processo di evoluzione della specie pensante. Quello che viene meno nel film rispetto ai libri, è l’orrore psicologico derivante dal meccanismo classificatorio dentro al quale tutte le specie (compresa quella umana nelle sue accezioni psicologiche, societarie, identitarie, in una parola: sociologiche) vengono inglobate dentro ad una rete che riesca a riconoscerle ed enumerarle. Parte dell’orrore del romanzo sta proprio nell’esasperazione positivistica legata allo scientismo di matrice razionalista, dove tutto è riconducibile ad una definizione, ad un campo in grado di definire per filo e per segno una specie, un limite che il romanzo lascia implodere tramite una contaminazione capace di soverchiare le distinzioni classificatorie (e consolatorie) che rendono sicura l’individuazione del diverso, di quel caso genetico particolare e quindi alieno. La paura che viene dal sovvertire determinate regole ferree è terrore ancestrale di un’umanità a cui sta sfuggendo il controllo. Anche in questo aspetto il film non riesce a seguire la sua origine, Garland sceglie la strada della riduzione cinematografica – nell’accezione negativa del termine – realizzando un film che scivola via fluido, capace di esprimersi solo attraverso delle scelte che semplificano la narrazione, raccogliendo dalla superficie un materiale sapientemente orchestrato ma pur sempre sintetico. D’altronde già pensare di trasporre la Trilogia dell’Area X è di per sé un’operazione rischiosa, che apre alla possibilità di sbagliare o di non accontentare. A conti fatti, Garland realizza certamente un buon film, ma che risulta essere un (quasi) sufficiente adattamento del primo libro della saga dell’Area X che non tiene conto dell’integrità della narrazione; nella speranza (ma visti i problemi distribuitivi forse infondata) di poter vedere presto anche i capitoli successivi, Annientamento è un’operazione godibile e ben fatta che può appassionare molto di più chi il romanzo finora non l’ha potuto ancora iniziare.