Gli orsi non esistono
Panahi è stato arrestato, ma i suoi film continuano a resistere contro il regime. "Gli orsi non esistono" rafforza l'equazione alla base del suo metacinema e si apre con lucidità commovente al confronto con un reale che non si può mai davvero ridurre a immagine.
In This is not a film Jafar Panahi confrontava la scena di un suo film, Il cerchio, con il racconto di una scena non ancora girata, soltanto scritta su un copione bocciato dalla censura di regime. In quell’occasione apertamente diaristica il regista confessava alla camera che in nessun modo con le proprie parole avrebbe potuto eguagliare le immagini, perché in nessun modo l’assenza di attori e attrici a cui assegnare le battute, o meglio, l’assenza di corpi in movimento da filmare, avrebbe potuto trasformarsi in un film. Non dovrebbe sorprendere, lo sforzo cinematografico per Panahi è sempre consistito nel tendere alla massima impressione di realtà attraverso il ritmo prodotto dai corpi in transito nello spazio, in entrata o uscita dal campo - in un sistema di respirazione fatto di pieni e vuoti gestiti nella scrittura e risolti sempre sulla superficie apparentemente innocua delle immagini. Sempre This is not a film però, nella sua stessa natura di esperimento metalinguistico, generato da necessità produttive e congiunture giuridiche tragiche (il regista era costretto ai domiciliari in attesa di un verdetto sulla propria ventennale incarcerazione), poneva un problema sulla compatibilità di questa concezione del cinema come “lavoro sul ritmo” con la struttura riflessiva del metafilm: come poteva essere funzionale a un cinema della trasparenza, interessato a lavorare sulla delucidazione, sulla rimozione dei meccanismi di finzione, l’insistita marcatura della cornice, dell’artificio?
Dopo quattro metafilm è possibile dire che anche quando la macchina e il testo si sono fatti più marcati e riflessivi, il regista iraniano ha sempre identificato il gesto filmico come un atto di essenziale stilizzazione ritmica pensato per avvicinarsi alla realtà, e non per contraddirla, evaderla o mandarla banalmente in cortocircuito. Nel suo cinema autoconsapevole, infatti, l’intricato gioco di doppi fondi non è stato mai segno della possibilità di risolvere il mondo in un’immagine sempre più esponenziale, sempre più virtualmente allargata e inglobante (“la realtà scompare nel gioco di finzione” sarebbe il luogo critico in merito), quanto piuttosto, per inverso, si è rivelato prova della debolezza della macchina cinema nel momento della sua massima e indebita estensione, pervasività e gittata, rispetto al referente reale. La svolta metatestuale ha rinforzato il cinema ritmico di Panahi, certificandone il presupposto - l’impossibilità di raggiungere il nucleo della realtà, l’unità del fatto rappresentato, se non attraverso un’immagine guidata dal corpo e dal suo puro movimento - e legittimandone la chiave di volta - il ritmo come il modo designato ma imperfetto, sempre ancora incompiuto, per cercare di portare a congiunzione rappresentazione e realtà.
Gli orsi non esistono, vincitore del Premio Speciale della Giuria a Venezia 79, è perfetta prova di questo discorso, un nuovo metafilm in cui i continui rimpalli virtuali sono barriere installate per essere sfondate dalla forza del reale. Lo mostra la prima inquadratura, in cui un piccolo angolo di paese (una strada, un locale), si rivela essere set cinematografico diretto a distanza da Panahi, ancora una volta nella parte di se stesso (costretto a girare in remoto, da un piccolo paesino iraniano, un film che invece è ambientato in Turchia): l’immagine con cui si apre il film sembra in continuità con la realtà (anche prospettica), ma basta poco tempo per accorgersi che si tratta dello schermo del regista, che interviene per interrompere l’apparente naturalità raggiunta dal set per un errore nella messa in scena. “Stop. C’è un errore nel ritmo” dice Panahi in cuffia al suo aiutoregista sul campo, quando la camera segue il personaggio sbagliato dopo la rappresentazione di un alterco. L’intervento non potrebbe essere più rivelatorio: nel gioco di realtà mascherate da finzioni (Panahi interpreta se stesso regista, mentre dirige un film in isolamento, senza poter lasciare l’Iran) e di finzioni mascherate da realtà (il film che il regista gira a distanza racconta con ibridazione documentaria la storia “vera e in corso” di una coppia che vorrebbe fuggire dal proprio paese e che finirà tragicamente – interrompendo le riprese), il ritmo del corpo funziona come la cerniera che rivela la messa in tensione dell’immagine nei confronti di una realtà che sta sempre là, di fronte, a poca distanza, ma non si riesce ad afferrare – non per caso molti film di Panahi finiscono con scene in cui un evento di realtà appare come aniconico, senza immagine nell’indefinizione di un buio lontano in campo come nello stesso This is not a film o fuori dal campo come in Offside.
Il corpo si configura come un precipitato di realtà, un’unità indissolubile che, anche nell’attraversamento di tutte le virtualità e di tutti i doppi giochi della finzione, non cede nulla della propria presenza e anzi rimane piantato in una vibrante intensità d’essere, che cresce in progressione durante il film assieme alla gravità degli eventi raccontati: da quando Zara (Mina Khosravani), la ragazza protagonista del film nel film di Panahi, accusa il regista di voler strumentalizzare la sua sofferenza (lo stesso faceva la bambina sull’autobus ne Lo specchio) e rivendica il diritto sulla propria immagine proprio facendo scudo con il proprio corpo, anzi, negando il proprio corpo all’immagine; passando per la scena in cui Panahi stesso è lì sulla linea di confine tra il paese in cui è costretto e il paese in cui stanno girando il film e, nell’incertezza dell’autenticità della scena (è quello davvero il confine? può Panahi seguire i consigli dei suoi collaboratori e uscire di nascosto dall’Iran?), il suo passo incerto, il suo volto dubbioso, il suo corpo (in azione performativa verrebbe da dire) si configurano come segno indubitabile, pura presenza nel circuito delle immagini; fino alla tragica scena finale del film, in cui il regista incontra i corpi morti di due giovani innamorati perseguitati nel villaggio che ospitava il regista, uccisi nel tentativo di fuggire dallo stesso confine.
Proprio in questo ultimo caso il corpo è definitivo segno limite per l’avvicinamento al reale, perché la coincidenza dell’assenza di vita con la fine delle immagini innesca non solo il rifiuto di continuare a girare ma anche la consapevolezza di non poterlo più fare. Nel gorgo di visibilità totale, in cui tutto sembra giungere a espressione “vera”, resta una porzione di incompreso, di incomprensibile al visivo, che chiede di ripensare la misura e di riconoscere l’esistenza di una distanza. Quando Panahi vede la scena di morte dalla propria macchina, mentre va via dal villaggio che lo accoglieva mal volentieri, interrompe il film con uno stacco che corrisponde al sonoro tiro del freno a mano: è l’attestazione dell’interruzione volontaria del proprio sguardo, in questi ultimi film legato quasi sempre al mezzo vettura (Taxi Teheran, Tre volti), l’azzeramento dei giochi e delle proiezioni e delle direttive, l’ammutolirsi dei discorsi di fronte al reale come ferita aperta, che fa male e non si può ricucire.