Alienween

Ritornano gli anni Ottanta, i mostriciattoli, i corpi che si sciolgono, i party sesso e droga, le nostalgiche amicizie e i platonici amori

Non tutti i film nascono da un’intuizione sulla trama. Alcuni partono da un titolo, come nel celebre caso di Venerdì 13 o come in questo. Alienween è tutto ciò che ha in mente Alex Visani. La fusione di due temi tanto cari all’horror dà vita a un neologismo accattivante. Come anche per Zombeavers, basta un semplice gioco di parole per incuriosire lo spettatore. Convinto di ciò, Visani contatta Federico Sfascia, di cui aveva apprezzato in particolar modo il corto Fright Light, gli propone il titolo e offre carta bianca. Il resto è tutta farina del sacco di Sfascia e salta subito all’occhio. Di Visani resta giusto un soprammobile, una piccola piramide poggiata sulla scrivania di una stazione radio, rimando a quel The Pyramid, prodotto sempre da lui nel 2013 e distribuito l’anno successivo in Giappone e Stati Uniti per il mercato home video.

Alienween si avvale di una struttura classica, quella di La notte dei morti viventi. Ovvero si ha sempre un gruppo di persone rifugiato in casa mentre all’esterno si diffonde un contagio fino ad allora ignoto. Basta poco perché il male penetri tra le mura domestiche e sgretoli ogni rapporto tra i soggetti presenti. Sfascia non sembra nutrire un vero interesse ufologico, tanto che se l’orrore arrivasse da sottoterra invece che dallo spazio profondo la trama non cambierebbe di molto. La vera passione del regista, come già dimostrato in ogni precedente lavoro, restano gli anni Ottanta dei teenager. Gli alieni non sono omini verdi ma simpatici mostriciattoli come i Critters, solo che in quel caso si trattava di roditori interstellari e in questo assomigliano più alla pianta carnivora di La piccola bottega degli orrori. La loro evoluzione biologica segue invece un processo simile a quello di Alien. Prima vi è il contagio: il piccolo alieno spruzza un liquido sull’essere umano in grado di generare un nuovo parassita all’interno dell’ospite. Successivamente il corpo estraneo si nutre di quello terrestre sciogliendolo (da qua il sottotitolo del film, The Melting Movie) e allo stesso tempo guidandolo verso nuove prede, esattamente come succede nella realtà quando un fungo intacca il cervello di una formica trasformandola in zombie. Per l’ultimo passo dell’evoluzione della specie bisogna attendere il finale del film. Immagine rimossa. La storia invece inizia con una festa segreta a base di prostitute e stupefacenti. A prenderne parte sono quattro ragazzi, un tempo legati da sincera amicizia e ora meno. La rimpatriata viene rovinata dall’arrivo improvviso delle rispettive fidanzate, prima ancora di quello degli alieni. Come già accennato, il fatto che il male venga da lontano non lo rende estraneo ai rapporti interpersonali ma, anzi, funge da catalizzatore per dinamiche preesistenti. A portare il contagio all’interno dell’abitazione è lo spacciatore che successivamente lo trasmette a una prostituta. Diventa dunque chiaro che il sesso e le droghe sono le prime cause di un’infezione dilagante che spinge il corpo a cadere letteralmente a pezzi. Se Alienween fosse stato diretto realmente negli anni Ottanta nessuno avrebbe avuto dubbi sul suo essere una metafora dell’AIDS. Oggi che il virus dell’HIV non è stato sconfitto ma resta ugualmente più contenuto, il testo di Sfascia può essere letto più generalmente come una fobia del contagio davanti al quale l’interesse primario è rimanere immuni. Se per sopravvivere bisogna chiudere la porta in faccia a un’amicizia o aggredire il proprio partner, tutti sembrano disposti a farlo mettendo in luce l’ipocrisia di buona parte dei rapporti umani.

Nonostante una visione cinica della vita, Sfascia resta dotato di grande ironia e la mette in scena attraverso un montaggio che strizza l’occhio alle anime giapponesi. La maggiore peculiarità delle opere del regista umbro è la grande attenzione posta a tutto l’apparato grafico, a cominciare dai mostri in vecchio stile fino alla fotografia dai forti cromatismi. A proposito di quest’ultima, bisogna sottolineare come i colori dominanti in Alienween non siano il rosso e il verde che ossessionano buona parte dei filmmaker italiani di stampo baviano e argentiano, ma piuttosto il rosa e il blu in grado di richiamare, ad esempio, From Beyond di Stuart Gordon, dove l’espandersi della luce rosea indicava il contatto con una dimensione ultraterrena. Da spettatore ed estimatore, l’unico rammarico è che Alienween non abbia goduto di un budget superiore ai progetti precedenti. Sia ben chiaro, Sfascia aveva già dimostrato di sapere creare prodotti validi con pochissimi mezzi, ma proprio per questo al terzo lungometraggio ci saremmo aspettati di vederlo lavorare con un vero apparato produttivo alle spalle. Il risultato resta ugualmente pregevole, tanto da far risultare autoironica la battuta pronunciata da Alex Lucchesi: il fatto che tu non sia pagata non ti autorizza a far male il tuo lavoro. Ora spetta all’Empire Video di Visani distribuire al meglio Alienween per offrire a Sfascia, alla troupe e al cast, con una menzione di riguardo per Raffaele Ottolenghi, la giusta visibilità che meritano. Un’ultima raccomandazione: non perdete la scena dopo i titoli di coda, visivamente la più bella.

Autore: Mattia De Pascali
Pubblicato il 23/04/2016

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