All is Lost - Tutto è perduto

E’ sorprendente notare come il cinema riesca sempre a spiazzarci e a descrivere traiettorie ben precise, che definiscono e completano percorsi trasversali. Accade così che la seconda metà del 2013 inizi con gli astronauti di Gravity in preda dell’assenza di peso e finisca con l’odissea marina di b>All is Lost – Tutto è perduto, dove lo sventurato naufrago Robert Redford si ritrova parimenti in balia di forze più grandi di lui e vaga senza meta in uno spazio ben definito (l’oceano), ma allo stesso tempo misterioso e distante fino ai limiti dell’orizzonte. E’ una prodigiosa vertigine quella che simili film provocano, perché ci ricordano quanto siamo allo stesso tempo perduti, ma anche artefici delle nostre salvezze. Per tutta la durata della sua avventura, infatti, il naufrago Redford cerca di affrontare con l’esperienza il suo naufragio: un container scaricato nell’oceano ha bucato lo scafo della sua nave e lui provvede a riparare i danni e a cercare di ritrovare la via seguendo le procedure del caso, facendo anche virtù dei mezzi a sua disposizione, ma ogni volta il destino avverso sembra rilanciare la sfida aumentando la distanza con la salvezza.

Che il regista J.C. Chandor abbia scelto il corpo iconico di Redford non è casuale: serviva un attore in grado di riflettere visivamente una profondità mitica che dicesse del cammino del genere umano lungo la strada delle difficoltà; creando magari un parallelo con le vicissitudini di antieroi cinematografici come Jeremiah Johnson, pure isolato nel contatto con una natura tanto vicina quanto lontana e aliena nella sua ostilità. E pochi attori, in effetti, sarebbero stati in grado di dare al ruolo quella dignità che viene dall’aver a lungo vissuto mantenendo sempre una propria solida integrità. Perché, in fondo, il tratto fondamentale del cinema redfordiano è proprio l’etica che ridisegna e distingue le azioni del singolo in rapporto al mondo, e che quindi può permettere al personaggio in questione di affrontare la sua odissea con la dovuta accortezza: ieratico e calmo anche quando la natura scatena la sua forza sulla barca, il nostro povero protagonista continua biblicamente a portare avanti il suo fardello, affrontando i pericoli uno alla volta, commuovendoci con la sua stolida volontà di sopravvivere.

Ne viene fuori un tassello di cinema d’azione nel senso più puro del termine, dove la differenza è data dall’agire: non sappiamo nulla di quest’uomo, la storia non ci consegna nemmeno il suo nome (i crediti lo indicano come “our man”), né tantomeno l’odissea diviene pretesto per scavi nella sua memoria e negli sbagli del passato (come avveniva, ad esempio, in pellicole quali 127 ore), e quindi egli diventa un paradigma di una situazione assoluta, dove ogni spettatore si può identificare. Sebbene la natura metaforica dell’operazione sia evidente, Chandor è capace di non far sì che la stessa soverchi la contingenza della circostanza avventurosa. Questo in virtù di una capacità di ragionare per immagini che oppone al panorama quasi sempre univoco della distesa oceanica (con i suoi cromatismi e l’immobilismo dei suoi tempi dilatati) la frenesia del confronto cui è costretto il personaggio.

Come per il Titanic cameroniano, insomma, all’interno di quell’imbarcazione c’è tutto il mondo e la pellicola può così creare il suo movimento attraverso un continuo accostamento di sensazioni ed elementi fra loro opposti: il grande (l’oceano) e il piccolo (la barca), il reale (la situazione di pericolo) e il surreale (l’incredibile assurdità del container “marino” che buca lo scafo), la paura immateriale (il destino che verrà) e la minaccia molto concreta (la tempesta), l’odio (del fato) e la speranza (del protagonista). Tutto serve a disegnare una ragnatela emotiva destinata a culminare nel bellissimo finale, dove il cammino lungo coordinate tanto ampie (il destino dell’uomo) quanto essenziali e “piccole” (la sorte del singolo) porta a compimento la sfida fra la rassegnazione, la rinuncia e la salvezza, con un epilogo poetico e coerente con l’impianto generale.

Autore: Davide Di Giorgio
Pubblicato il 16/08/2014

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