American Gigolò
Il confronto con i propri fantasmi da parte di uno dei più iconici antieroi del cinema statunitense

Non sono tanti gli autori che hanno inciso sul cinema statunitense quanto Paul Schrader, soprattutto se si considera il suo doppio ruolo di regista delle proprie opere e di sceneggiatore di opere girate da altri. Nel tracciare un filo conduttore circa il suo percorso autoriale ci si imbatte in questa divisione binaria, da una parte le opere che possiamo definire “pure”, dove la messa in scena è in totale continuità poetica con lo script, dall’altra quelle “ibride”, in cui sulla visione del mondo di Schrader viene costruita un’impalcatura autoriale complementare pronta a esaltare la materia prima, come accade nel caso delle collaborazioni tra l’autore di Hardcore e Martin Scorsese. In questa continua tensione emerge un autore estremamente stratificato, il cui cinema non fa che continuare a raccontare il conflitto professionale ed esistenziale dei suoi eroi. E non è un caso se il narcisismo risulta essere uno dei nuclei tematici maggiormente ricorrenti nella filmografia di Schrader, che di volta in volta viene ispezionato da differenti punti di vista, che sia quello della genitorialità di Hardcore o la rivendicazione della propria identità professionale di Tuta blu. Tuttavia dal punto di vista stilistico così come da quello del lavoro sull’antieroe, il film che maggiormente approfondisce la riflessione sul narcisismo è sicuramente American Gigolò, vertice espressivo di Paul Schrader che oltre ad andare nelle pieghe di un animo complesso come è quello del personaggio interpretato da Richard Gere offre un ritratto degli degli Stati Uniti e soprattutto, in maniera indiretta, del cinema statunitense di quegli anni di estrema pregnanza.
Quello di Schrader è in primis un discorso sul personaggio, un tentativo di dare vita a un eroe non convenzionale in grado di riflettere su alcune questioni a lui molto care, che da una parte guardano alla ridefinizione del maschio bianco americano (non tanto di nascita quanto come collocazione all’interno di un ben preciso immaginario) ma dall’altra si rifanno all’esistenzialismo di matrice europea, sia filosofico sia cinematografico. Il narcisismo di Julian Kay è una corazza apparentemente indistruttibile, è un’autoinganno che ricopre il protagonista di una guaina magnetica e impermeabile agli agenti esterni, ma che al contempo lo mette sotto scacco vietandogli di guardare realmente dentro se stesso. A partire da uno status quo di perfezione sintetica, in cui ogni orpello indossato è funzionale alla costruzione di un sé puramente superficiale e ogni gesto è immaginato per il soddisfacimento del piacere altrui (e di riflesso, ovviamente, del proprio), Julian vede progressivamente crollare le proprie certezze sotto le sferzate di un amore travolgente, che auto-sabota meccanismi collaudatissimi spingendolo a guardare dentro se stesso, a fare i conti con il proprio senso di colpa, il proprio piacere e la propria insoddisfazione, dando vita a un corto circuito da cui non sarà più possibile tornare indietro.
La complessità di American Gigolò e del protagonista che lo domina dall’inizio alla fine a partire dal titolo è data dalla sua natura ibrida, dal tentativo dell’autore di realizzare un film ponte, una sorta di compendio di tante istanze del cinema degli anni Settanta a stelle e strisce e allo stesso tempo un tentativo di cogliere le principali novità degli anni Ottanta, arrivando (oggi possiamo dirlo) addirittura a modellarle dal punto di vista della messa in scena. Non c’è dubbio che Julian Kay sia una delle principali icone degli anni Ottanta, che il corpo di Richard Gere abbia bucato nell’immaginario di quella decade in maniera unica, grazie naturalmente anche alla recitazione dell’interprete ma soprattutto al modo in cui Schrader decide di scrivere il personaggio e di metterlo in scena. Si tratta di un carattere iconico anche perché apparentemente bidimensionale e proprio per questo ancora più virale, un uomo fatto di pura superficie, dove ogni gadget adottato contribuisce a far luccicare la sua immagine agli occhi altrui. Julian è una sintesi perfetta della città che abita (in particolare se si pensa a come verrà rappresentata negli anni Ottanta), un’epidermide luccicante il cui interno è inaccessibile, un oggetto scopico sostanzialmente anonimo.
Tuttavia il lavoro di Schrader consiste nel partire da questa base profondamente innovativa per quegli anni e metterla in crisi, sfondare la superficie perfetta e scintillante dell’oggetto antropomorfo per arrivare negli anfratti più reconditi e contraddittori del soggetto. Nel ragionare sul senso di colpa, sul fallimento del protagonista e sull’inevitabilità della sconfitta, Schrader trasforma il suo protagonista in un antieroe profondamente seventies, che declina il proprio bisogno d’amore in una progressiva conoscenza dei propri demoni, metaforizzata splendidamente dal progressivo sporcarsi (con olio, fango o semplicemente tramite la crescita della barba) del suo impeccabile corpo.
American Gigolò è un film pienamente incardinato nell’industria hollywoodiana, che intende ragionare su alcuni dei principali topic del cinema della New Hollywood e al contempo immaginare l’embrione del cinema dell’immediato futuro. Nonostante un’autorialità molto spinta come quella di Schrader, la vera forza del film è quella di dialogare con il sistema dei generi e con la produzione americana. In molti momenti infatti il film si rifa’ al filone dei cosiddetti “paranoia movie”, ovvero quel sottogenere del cinema statunitense degli anni Settanta figlio del Watergate che annovera opere come Tutti gli uomini del Presidente e I tre giorni del Condor. Non a caso infatti, in uno dei momenti di maggiore crisi Julian, immerso nella paranoia più totale, distrugge il proprio appartamento permettendo a Schrader di citare esplicitamente La conversazione di Francis Ford Coppola. Nell\'approfondire i chiaroscuri di Julian e nel metterlo spalle al muro in maniera sempre più radicale, Schrader guarda in modo esplicito anche al noir, in particolare a uno dei principali esempi di noir classico quale La fiamma del peccato. Pur senza il flashforward rivelatore ad aprire il film, American Gigolò fa di Julian la vittima di un affine incastro perverso, il burattino inconsapevole di un gioco che vede donne e denaro messe sullo stesso piano e rese merce di scambio in un teatrino di continui tradimenti.
La carriera di Paul Schrader dopo American Gigolò sarà ricchissima di opere di assoluto interesse – come dimostra First Reformed, suo ultimo lavoro – ma probabilmente non riuscirà più a toccare questo livello di pulizia formale, di capacità di sintesi e questa potenza iconica. Vedere American Gigolò oggi fa ancora molta impressione, ma per chi ha avuto la fortuna di assistere alla discesa agli inferi di Julian Kay in sala nell’anno d’uscita del film dev’essere stata un’esperienza difficilmente eguagliabile.