American Horror Story: Freak Show.
La quarta stagione di A.H.S. ci porta tra i tendoni diabolici dei freaks: il risultato è disturbante, caotico e patinato.
In questi anni l’affermarsi di una serie televisiva come American Horror Story ha permesso di confrontarsi con la storia di un genere cinematografico, l’horror per l’appunto. Il tentativo più evidente della serie creata da Ryan Murphy e Brad Falchuck, sembra essere quella di reinterpretare la storia dell’horror americano cinematografico, assemblando in una chiave moderna i cliché, gli ambientazioni e gli archetipi.
Nella prima stagione, Murder House, l’ispirazione era ricaduta su elementi come la casa, simbolo per eccellenza dell’horror americano, e l’anticristo, ripreso chiaramente da Rosemary’s Baby (1968) di Roman Polanski.
In Asylum, seconda stagione della saga, l’ambientazione ha avuto la meglio sulla storia, mettendo al centro del racconto il manicomio di Briarcliff, dove al suo interno vagano personaggi di ogni tipo: suore impossessate dal demonio, psicologi serial killer e dottori nazisti. Nella terza stagione, Coven, i creatori di American Horror Story hanno avuto modo di confrontarsi con la magia nera, raccontando una battaglia di stregoneria tutta al femminile. Il maschio qui è ridimensionato a figura inumana, un Frankenstein dei giorni nostri.
Da pochi giorni si è conclusa, invece, la quarta stagione di A. H. S., una discesa nel mondo dei freaks, del circo e di tutti gli archetipi orrorifici ad esso appartenenti, come ad esempio il clown, che a partire dal celebre It, descritto nell’omonimo romanzo di Stephen King (1986) e poi trasposto per il piccolo schermo da Tommy Lee Wallace (1990), è diventato una figura ricorrente dell’horror contemporaneo.
Tuttavia, vedendo Freak Show, il primo modello che viene in mente è Freaks (1932), il grande capolavoro di Tod Browning. Anche se bisogna stare ben attenti ad accostare le due opere, difatti le uniche cose che le accomuna sono le location e i personaggi, ricalcati in A. H. S. in chiave moderna.
Ciò che manca nella serie di Ryan Murphy è uno sguardo autentico e sincero sui freaks, così come potevano essere le fotografie di Diane Arbus. Ancora una volta ciò disturba di American Horror Story è la patina “pop” di cui la serie si veste. Non facciamo riferimento alle numerose perfomance di Jessica Lange, impegnata ad interpretare celebri canzoni di David Bowie, come Life on Mars ed Heroes (la serie è ambientata negli anni Cinquanta), ma si fa riferimento a quella volontà mai negata dai creatori della serie di trasformare i personaggi/archetipi di un genere in un prodotto godibile e ammiccante. Così, ciò che viene a mancare è la vera natura dell’horror, il suo aspetto perturbante. Certe volte American Horror Story sembra trasformarsi in questo senso in una parodia, dove ci si diverte e rimescolare gli elementi del genere, così come accade nel pastiche postmoderno.
Per chi frequenta le serie televisive da almeno un decennio, non può non venire alla mente anche Carnivale, una serie incompiuta, tra le più sottovalutate di sempre e a cui oggi varrebbe la pena ritornare. Freak Show ha molte cose in comune con la serie creata da Daniel Knauf, a partire dalla presenza del circo e dei freaks. Entrambe, inoltre, sono costruite dal punto di vista narrativo sulla struttura corale. Anche se Jessica Lange è la presenza costante della serie, non si può dire che è lei la protagonista di Freak Show. Qui, come in Carnivale, ogni personaggio svolge un ruolo importante e decisivo. Ma se in Carnivale la sceneggiatura orchestra perfettamente il coro, in Freak Show si evince ancora una volta una dispersione delle microstorie, rimanendo spesso inconcluse e incapaci di dare una svolta alla storyline. L’effetto ottenuto è caotico e disturbante, non in senso orrorifico, ma inteso sotto il profilo dell’esperienza spettatoriale. Una vera impresa quella della spettatore, che alla fine deve sforzarsi di ricollegare le numerose storie. Sempre se egli ci arrivi.