American Sniper
Con sguardo apparentemente invisibile Eastwood torna a riflettere sul concetto di eroismo in guerra.
Secondo il principio di indeterminazione di Heisenberg l’atto di osservare non è mai neutro. Esaminare con una vicinanza estrema un dato fenomeno significa inevitabilmente alterarlo con la propria presenza scopica. Lo sguardo non può esimersi dall’entrare in contatto con ciò che sta guardando. Tuttavia il cinema se ne infischia della fisica e delle sue regole, e allora a volte capita che filmare troppo da vicino qualcosa significhi cambiare anzitutto sè stessi. A volte è la materia a dominare sull’immagine cinematografica, la cambia e la assorbe piegandola alla propria essenza.
E’ questa la sensazione che emerge durante la visione di American Sniper, la percezione di vedere un Clint Eastwood troppo assorbito dalla vicenda narrata, troppo vicino alla fiamma per poter offrire uno sguardo laterale e scomodo a quella che rischia di farsi una semplice agiografia militare. In brevi lampi American Sniper riesce trasversalmente ad offrire un’immagine dissonante e allucinata della guerra, ma la potenza e l’intensità che era lecito aspettarsi dal regista di Flags of Our Fathers e Lettere da Iwo Jima sembrano soffocare tra i resoconti e i riferimenti di una vicenda ancora caldissima. Del resto lo stesso Chris Kyle morì per mano di un reduce a pochi chilometri da casa nel pieno della lavorazione del film.
Con 250 probabili nemici uccisi, di cui 160 confermati dal Pentagono, Chris Kyle è passato alla storia come il miglior cecchino dell’esercito americano. “La leggenda” per i suoi commilitoni, “Il Diavolo di Ramad” per gli insorti iracheni, Kyle è morto in patria dopo esser sopravvissuto per 4 turni in Iraq, ovvero quasi 400 giorni. Un paradosso sul quale Eastwood decide di chiudere la sua nuova biografia, un altro racconto a caldo che similmente a quanto accaduto con Invictus fatica a trovare il suo valore, soffocato da una dimensione manichea priva di ombre. L’ingenuità eroica di Chris Kyle diventa infatti per Eastwood un mito quasi intoccabile, di cui non a caso si mette in scena la crisi sul versante familiare con una piattezza da pilota automatico che denota davvero poco interesse a riguardo. Piuttosto a contare per Eastwood è ancora una volta il confronto bellico come sede privilegiata per riflettere sul concetto di eroismo.
Come dichiarato testualmente, il soldato Kyle vive seguendo le leggi di Dio, della Patria e della Famiglia, una trinità perseguita con quella fede propria di chi crede di poter distinguere ciecamente il Bene dal Male. Tuttavia tutt’attorno all’eroismo di Kyle vive il dubbio e l’orrore per una pratica che genera morte prima che eroi, e attraverso lettere, accenni, sguardi Eastwood cerca un parallelo tra il coraggio e l’ossessione, due facce della stessa medaglia.
Tanto da sacrificare il suo tempo con la famiglia Kyle torna più volte in Iraq per combattere, ma se la sua voce ci presenta un soldato indefesso e assolutamente centrato nel compiere il proprio dovere, gli occhi del bravissimo Bradley Cooper si caricano di tutto quel dubbio che non trova azione. American Sniper è allora un film di nascondimenti e rarefazioni, la materia centrale si inaridisce nell’agiografia dell’eroe e con lui di tutti i reduci e caduti e soldati impegnati al fronte, ma a latere come scheggie impazzite si aprono spiragli di ambiguità. Se nel dittico precedente l’eroismo era prima di tutto un concetto necessario al tessuto sociale, vendibile al meglio a patto di soffocare l’autenticità che in realtà lo genera, in American Sniper l’ossessione per il combattimento serpeggia e tocca alcuni personaggi, ma tutto rimane sempre e troppo sottopelle. Eastwood ci ricorda la guerra come droga già mostrata di recente dalla Bigelow di The Hurt Locker, ma ogni elemento di rischio per la solidità agiografica è come se fosse messo da parte, nascosto alla vista come il cecchino di cui si narra la storia.
Occhio che uccide occultato tra le rovine di un paese invaso, il fucile e il mirino di Chris Kyle sono allora gli elementi più interessanti del racconto di Eastwood, che pur incastrandosi nella rappresentazione di un patriottismo così estremo offre immagini belliche di grande potenza. Come ad esempio il momento della telefonata nel mezzo dello scontro, un annullamento spaziale in cui gli spari arrivano direttamente sul suolo americano, similmente a quanto mostrato dal Andrew Niccol nell’ottimo e ingiustamente bistrattato Good Kill. Più in generale l’Eastwood di American Sniper torna a raccontare la guerra con una messa in scena estremamente controllata, come di consueto nel suo cinema cristallina, classica. Come se un impianto estetico così rigoroso possa in qualche modo dare senso al caos magmatico della guerra, terreno per eccellenza del paradosso. Il risultato è allora un film di grande impatto visivo, girato come di consueto con estrema competenza ma dall’ambiguità troppo nascosta e sepolta all’interno del testo, oltretutto privo di quella poesia che Eastwood ha saputo invece offrire in passato. Come quel bagno al tramonto sulle coste giapponesi su cui si chiudeva Flags of Our Fathers, quello sì in grado di restituire dignità ai soldati senza per questo rinunciare al dubbio.