Cinquanta sfumature di nero
Il secondo capitolo della saga dice qualcosa di noi e dell'oggi, racconta un'idea di pubblico. E insinua che la relazione tra uomo e donna è sempre un contratto con regole precise.
«Ho fatto sesso estremo in tutte le maniere con quest’uomo, cose che non avevo mai sentito nominare fino a qualche settimana fa, che non pensavo neppure possibili, eppure la più difficile di tutte è parlarne».
E. L. James – Cinquanta sfumature di nero
«Al pubblico si possono strappare grida di terrore davanti a un mucchio di delitti e disgrazie, ma bisogna evitare di metterlo davanti ai problemi. “Non dimentichi che il pubblico ha dodici anni”, mi disse un giorno un produttore. E questa è l’opinione sincera della maggior parte di loro. Per fortuna ci sono delle eccezioni».
Jean Renoir
Il secondo capitolo della relazione sadomaso tra Christian Grey (Jamie Dornan) e Anastasia Steele (Dakota Johnson) impone delle riflessioni. A mente fredda, giunti a due terzi dell’opera, si affaccia l’esigenza di uscire dal dittico love/hate nei confronti del film (i lovers sono il pubblico, gli haters la critica) e tentare di guardarlo con serenità nello specifico, ovvero considerare ciò che c’è sullo schermo.
Cinquanta sfumature di nero è un film commerciale, diretto dal fu notevole James Foley (da ricordare almeno L’ultimo appello del 1996): è la storia di un uomo molto ricco che vuole procurarsi una slave, ci riesce ma poi se ne innamora. È ormai lampante che dietro ai frustini c’è una classica storia d’amore hollywoodiana, coi suoi crismi rispettati scientificamente. Un uomo e una donna si conoscono e amano, ma un ostacolo interviene tra loro e spacca la possibile felicità: negli anni ’50 sarebbe stato un divario di classe o la guerra, oggi è la dipendenza sessuale di Grey dal bondage, ma non cambia nulla. Lo schema della love story viene esposto, dalla vicinanza all’allontanamento (il primo capitolo), dal ritorno al nuovo conflitto (il secondo) fino al matrimonio (sicuramente il terzo): qui, nell’episodio nero, si procede con una dosata mescolanza di riconoscibili citazioni dal patrimonio della fiaba e dell’eros, in una festa a metà tra i fratelli Grimm ed Eyes Wide Shut, un ballo in maschera che diviene metafora del travestimento della stessa operazione, cinema popolare vestito da prodotto softcore. Ma non è questo il punto: per realizzare cos’è Fifty Shades Darker occorre forse soffermarsi su ciò che il film ci sta dicendo.
Cinquanta sfumature ci dice, prima di tutto, che il contemporaneo è regolato da una spietata logica capitalistica: il miliardario Christian incontra la studentessa Anastasia e la “compra”, ci fa un patto monetario, un accordo scritto. Nella vecchia storia del dominio dei ricchi sui poveri, però, l’intreccio introduce uno scarto narrativo considerevole e perfino coraggioso: nel suo mondo dietro ai rapporti economici può nascere l’amore. È, questo, un turning point spiazzante nel racconto americano dell’economia oggi: al contrario della stragrande maggioranza del cinema statunitense, dove la crisi è letale e i soldi sono soltanto soldi, al contrario della deriva del “lupo di Wall Street” scorsesiano, qui dietro alla dittatura del dollaro sboccia il sentimento. Quello vero.
Cinquanta sfumature afferma poi che una relazione sentimentale è sempre un contratto con regole precise: “Dobbiamo cambiare i termini”, sostiene all’inizio Grey, confermando l’idea della storia d’amore come definizione di norme non solo implicite. Ogni rapporto uomo/donna le prevede, e allora tanto vale metterle nero su bianco, raccoglierle in un testo firmato da rinegoziare all’occasione (la stesura del contratto, in Cinquanta sfumature di grigio, resta finora la sequenza migliore della trilogia). Non è forse la vita di coppia una continua trattativa?, vuole suggerirci.
Cinquanta sfumature è un film che dimostra che la perversione mainstream si può fare, ma deve essere plastificata e “coverizzata” sui corpi dei modelli come Dornan: per questo le scene di sesso vengono girate con stacchi di montaggio e parziali dei dettagli (esempio: si prova un nuovo oggetto sadomaso, si inquadrano le ginocchia della protagonista), perché la perversione non si può offrire in quanto tale, ma va mitigata fino all’annullamento per renderla digeribile. E per lo stesso motivo Gray ha un trauma nel passato: non si può presentare al pubblico un perverso senza spiegazione, come faceva Von Trier in Nynphomaniac, occorre giustificarlo con l’alibi della motivazione narrativa. E qui, forse, sta il peccato maggiore dell’intreccio e della sua rappresentazione: castigare l’aspetto psicologico viene ancora prima di anestetizzare la messinscena.
Cinquanta sfumature ci dice anche che abbiamo bisogno di pubblicità, e infatti è un film pubblicitario. Risponde alla logica dell’induzione del desiderio, il suo appagamento parziale, la voglia di continuare a guardare/comprare. C’è una sequenza che lo attesta chiaramente: senza un minimo nesso logico sulla direttiva causa-effetto, all’improvviso Grey esegue un allenamento a torso nudo (solo torso, ovvio) davanti alla macchina da presa. Ana si risveglia e lo sorprende in quella posizione. Non c’è più alcun filtro tra la forma del racconto e la necessità dell’esposizione epidermica: il corpo di Dornan è uno spot di un minuto, messo in vetrina, davanti agli occhi di tutti. E questa sfacciataggine assume una dimensione teorica, non serve la storia ma si mostra e basta, se non fosse pudico si direbbe quasi porno.
Il film di Foley – come il primo – è dunque un contenitore di varie istanze, più o meno interessanti, che spesso diventano fertili quando aprono una riflessione in negativo (perché manca quello che non c’è). Di sicuro accenna percorsi di senso sul cinema americano del 2017, sulle regole che imbrigliano e le aspettative che abbiamo: un incasso (in Italia 10,5 milioni di euro al box office del 18 febbraio) non è mai colpa del pubblico, ma piuttosto è responsabilità di chi quel pubblico se lo immagina, stabilendo qui che voglia la cartolina del sesso, la caricatura del mystery, il brano musicale più noto. Il film attento a non disturbare.
Il precedente Cinquanta sfumature di grigio fu proiettato in anteprima mondiale alla Berlinale 2015. Nel frattempo, nella sala accanto, la sezione Forum presentava come sempre la sua selezione di opere ardite e sperimentali. Ecco due facce della medaglia: da una parte chi avanza una proposta complessa provando a guidarti sul suo terreno, dall’altra chi pensa di sapere cosa vuoi e ti va incontro imponendo la sua convinzione. Chi è davvero pro e chi contro lo spettatore? In realtà il pubblico non esiste, è solo un’idea. E così un brutto film può dire qualcosa di noi, della malintesa concezione del nostro sguardo che noi stessi alimentiamo. Ma non basta questo a spiegarne il clamoroso successo, né basta il marketing: appartiene proprio a un’altra sfera, a un enigma comportamentale, al mistero dell’indecifrabilità dell’uomo e delle storie che vuole sentirsi raccontare.