A sei anni di distanza da Piano 17 i Manetti Bros. tornano al cinema con un sorprendente kammerspiel fantascientifico che coniuga, come di consueto per i due cineasti romani, il gusto per il racconto schiettamente di genere con stoccate politicamente scorrette. In un’annata (quella del 2011) che aveva registrato un rinnovato interesse per la fantascienza da parte del cinema italiano, i fratelli autori di Zora la Vampira e della serie L’ispettore Coliandro si sono fatti trovare pronti, confezionando il loro personale controcampo all’operetta morale (e un po’ spocchiosa) del fumettista Gipi (L’ultimo Terrestre).
La storia, quasi tutta ambientata in un misterioso sotterraneo dei servizi segreti, racconta di una ragazza, Gaia, interprete di cinese la quale chiamata per una traduzione tanto urgente quanto segreta, si trova a dover aiutare l’agente Curti (interpretato con divertito eccesso da Ennio Fantastichini) a comunicare con un piccolo alieno di nome Wang. La narrazione si sviluppa praticamente tutta all’interno di una stanza, alternando momenti estremamente concitati a pause ritmiche, in cui la ragazza cerca di mitigare gli atteggiamenti violenti e privi di scrupoli dell’agente. Uomo dalle maniere forti che tenta con metodi poco ortodossi di capire i reali motivi che hanno spinto l’alieno a raggiungere la Terra. In un clima misterioso vediamo crescere con il passare del tempo la tensione e il nervosismo mentre Gaia tenta, da par suo, una (im)possibile mediazione culturale...ovviamente ci saranno sorprese.
In effetti sono proprio gli ultimi – e inaspettati – sviluppi della narrazione ad aumentare il peso specifico dell’operazione, trasformando il pur gradevole film in un’intelligente metafora sulla complessità dei rapporti umani e sull’incomunicabilità. La scelta di costruire tutta l’opera attorno ad un interrogatorio si rivela doppiamente riuscita, poiché riesce a catturare da subito l’attenzione dello spettatore, costringendolo a doversi misurare con questioni nient’affatto banali, ma anche per il suo significato meta-cinematografico di traduzione di un linguaggio, quello del cinema di fantascienza nel contesto industriale italiano. Ne L’arrivo di Wang la parola assume un ruolo centrale come veicolo primario della narrazione e nella contrapposizione con l’immagine così assurda e irrazionale dell’alieno. Allo shock visivo, davanti al quale veniamo privati di qualsiasi spiegazione, i due registi oppongono la parola, come impossibile strumento di contatto e di scambio, nonché unico dispositivo in grado di costruire, inventare, immaginare mondi alternativi. Necessità da low budget forse, ma quanta forza, quanta autentica passione riesce a sprigionare il film! Ennesima conferma del talento unico e prezioso dei loro autori, tra i pochissimi eredi di una gloriosa stagione di cui si sente sempre più la mancanza.