Delle tante sequenze di quel grande collettore di spunti e bellezze qual è Sogni d’oro, “Io non parlo di cose che non conosco” rimane probabilmente la scena più facilmente citata, inevitabilmente cara al cuore di ogni cinefilo pur nella sua partigiana radicalità. A volte però quel mantra, ripetuto da Moretti ai suoi amici fino all’esasperazione, andrebbe declinato in una nuova forma del tipo: “io non faccio le cose che non so fare”. Senza nulla togliere all’eventualità e al peso del genio, del talento puro e indipendente da ogni cosa, realizzare un film (o scrivere un libro, o dipingere un quadro) è una prassi, un lavoro concreto fatto di principi, regole, capacità intellettuali o anche meramente pratiche che siano idonee. Lasciando intoccata la preziosa caratura personale e intellettuale di Carlo Lucarelli, che tante e diverse cose buone le sa fare, resta il fatto che nel suo L’isola dell’angelo caduto quest’ordine di competenze pare, semplicemente, del tutto assente.
L’isola dell’angelo caduto nasce da un libro, pubblicato con Einaudi nel 1999, che già di per sé si configurava come un mezzo esperimento. A metà tra giallo classico e thriller soprannaturale, l’indagine narrata da Lucarelli cercava di fondere suggestioni eterogenee in un humus di ricostruzione storica che permettesse di lanciare anche alcuni agganci sul presente. Agganci che, seppur riportati con grana grossa, tornano piacevolmente nella sua trasposizione cinematografica presentata ieri sera in Prospettive Italia. La storia ruota attorno all’isola del titolo, uno scoglio sperduto vicino alla Sicilia abitato prevalentemente da confinati e camerati; qui la vita procede statica in un falso movimento fino a che una camicia nera viene trovata uccisa. Il commissario assegnato all’isola – mezzo confinato pure lui – è l’unico delle autorità presenti a voler risolvere il mistero, che si aggrava con la comparsa di altri morti. Ad aiutarlo avrà solo il Dottor Valenza, confinato con il quale intrattiene un rapporto di placida amicizia.
Ambientato nel turbolento periodo della crisi dell’omicidio Matteotti, il soggetto di partenza ideato da Lucarelli è davvero gravido di potenzialità e spunti; abbiamo del resto un’isola dispersa e fuori dal mondo, immersa in un contesto quasi a-temporale in cui quel poco di istituzionale che rimane dello Stato Italiano va a scontrarsi con la brutalità autoritaria e ignorante del veleno fascista. Allo stesso tempo l’insistenza e il senso dello Stato dell’ispettore protagonista sono allegorie, anch’esse abbastanza rozze ma importanti, della volontà a non voler cedere all’indifferenza e alla noncuranza. Tuttavia L’isola dell’angelo caduto non riesce a sfruttare per davvero tali premesse, che rimangono uno scheletro traballante attorno al quale Lucarelli e i suoi sceneggiatori non sono stati in grado di costruire un vero e proprio film. Sul versante della sceneggiatura il racconto soffre di buchi e inciampi continui, personaggi piatti e assolutamente funzionali calati in situazioni caricate e implausibili che se potevano funzionare sulla carta si caricano sullo schermo di involontario ma inevitabile ridicolo. Anche quella che dovrebbe essere il cuore del film, la detection, appare assente e inconclusa: il commissario di Lucarelli infatti praticamente non indaga mai, si limita a vagare da un personaggio all’altro pur di stare lontano dalla moglie esaurita e il suo giradischi impallato, mentre lo scioglimento finale della detection viene affidato in larga parte ad un fascista ridicolo e al confinato Valenza,unico personaggio piacevole e veramente riuscito del film. Del resto le sue chiacchierate con il commissario sono gli unici dialoghi che valga la pena seguire, oltre ad essere gli unici momenti in cui Giampaolo Morelli abbandona quella recitazione impostata e gessata che si trascina dietro in ogni altra sua scena.
A peggiorare la situazione e seppellire definitivamente un film poco salvabile c’è la scarsa dimestichezza che Lucarelli ha dimostrato di avere per il dispositivo cinematografico in sé; quando non è televisivo L’isola dell’angelo caduto si concede effettacci grezzi e ricercatezze gratuite prive di alcun senso dell’immagine. Coadiuvato da una fotografia patinata e inutilmente plumbea, Lucarelli non riesce a non far urlare al proprio film tutto ciò che vuole che traspiri, calcando la mano su ogni aspetto della messa in scena in un collage tra il pretenzioso e il didascalico decisamente non all’altezza del suo lavoro letterario.