IT Capitolo 2
Il secondo capitolo dell'adattamento di Andy Muschietti sfoggia interpretazioni magistrali e conferma ancora una volta l'impossibilità di adattare al cinema il capolavoro di Stephen King.
Forse la lettura migliore da dare a IT Capitolo 2 sta nel considerarlo un testamento sull'impossibilità sistematica di adattare determinate opere alla forma del lungometraggio visivo. Tale impossibilità, propria di mille capolavori letterari del passato, può essere forse aggirata, ma solo attraverso il tradimento, o la “riduzione”: il processo di ridurre, appunto, un racconto scritto indecifrabile alle sue componenti filmabili. Esaltando così i militanti della fedeltà, ma scontentando chi di tale racconto aveva amato altro. È ciò che fin da subito hanno fatto Andy Muschietti e Gary Dauberman, riuscendo nella spericolata impresa di fornire una controparte cinematografica quantomeno credibile all'opera più inavvicinabile del canone kinghiano.
I tantissimi che avevano amato il primo film del regista argentino per via della sua aderenza al materiale di partenza (un'aderenza comunque in sottrazione, limitata più che altro alle componenti estetiche), troveranno in IT Capitolo 2 il proseguimento perfetto, millimetricamente calibrato per un'ideale visione d'insieme da cinque ore. Un anno e mezzo separa le due lavorazioni, ma ad eccezione dell'improvvisa crescita fisica dei ragazzini adolescenti, la complementarietà delle due opere è tale da far pensare ad una lavorazione in back-to-back.
Dunque, riprendiamo dove ci eravamo lasciati, con ventisette anni di differenza. Nel 2016, sei dei sette ex Perdenti hanno abbandonato Derry, e vivono vite di discreto successo nelle metropoli industriali americane. Una chiamata li riporterà a casa, a ritrovare il tempo perduto dell'estate 1989, e affrontare il mostro senza forma che da bambini credevano di aver sconfitto.
L'approccio con cui Dauberman e Muschietti si sono mossi per scalare le 1400 pagine della montagna è sempre lo stesso, l'unico possibile. Le ventiquattro linee narrative del mastodonte simil-joyciano vengono portate a due, le diciotto chiavi di lettura intrecciate diventano una e mezza; il mostro c'è, è potente e cattivo, bisogna scovarlo e ucciderlo a sassate. Tutto sommato, una maniera onesta di (non) affrontare pozzi neri di cosmogonia metafisica e magia sexualis. Il linguaggio visivo non lo permette, o almeno non lo permette quello del mainstream americano contemporaneo: gli autori neanche ci provano, ed è giusto così.
In fondo, il problema taciuto alla base della patologica incapacità dell'opera kinghiana nell'adattarsi allo schermo, sta nell'intrinseca letteralità del maestro di Portland. Per essere lo scrittore forse più filmato del canone occidentale, Stephen King è straordinariamente lontano dal cinema. IT in particolare, in quanto suo lavoro più emblematico, è un romanzo che vive di parole. Digressioni, ricordi, memoria condivisa: biografie di personaggi immaginari, Storia di una città che non esiste. Un lavoro narrativo così totale è possibile attraverso l'accumulo diaristico di migliaia di pagine scritte, ma trasposto in fotogrammi qualcosa finisce lost in translation. Nel film del 2019, l'esempio più calzante di questo equivoco è Derry stessa: la cittadina del Maine è il vero protagonista dell'epica scritta, e il lettore impara a conoscerne ogni vicolo, ogni piazza, apprendendo la storia demografica e politica del suo passato, arrivando a sovrapporre la patria dei personaggi alla propria stessa città natale. In un film, tutto ciò non è possibile: il luogo-Derry è probabilmente l'assenza più triste del dittico di Muschietti, relegata sullo sfondo, a un paio di riprese aeree, ma essenzialmente muta agli occhi di uno spettatore che, banalmente, non la (ri)conosce.
Data per assunta questa intraducibilità (che tocca ovviamente svariate altre componenti del dittico: per analizzarle tutte ci vorrebbe un saggio grande quante il romanzo stesso), IT Capitolo 2 resta fedele alla sua lettura epidermica della storia dei Perdenti. Cercare temi che il film non può e non vuole affrontare è disonesto; lo spazio di analisi che resta chiede di valutare cosa c'è al di là di cosa non c'è, e se questo IT “letterale” faccia la sua figura per quello che vuole essere. In questa sua incarnazione, il film è quasi perfetto, e una degna seconda parte al già ottimo primo capitolo. Certo, è reso meno scorrevole da alcuni inevitabili problemi di assestamento (una certa ripetitività della struttura, il sacrificio in sala montaggio di una serie di comprimari storici ridotti a cameo – Bowers su tutti). Ma Muschietti ha trovato il suo IT, e nonostante le tre ore il film vola come un Annabelle.
La cosa migliore, quasi incredibile in un film come questo, è la perfezione del casting. Uno sciattissimo Ben - Jay Ryan a parte, i sette eroi sono meravigliosi, e da James McAvoy a Jessica Chastain filtra la consapevolezza di stare cimentandosi con personaggi classici della letteratura, e non con semplici pupazzi slasher: ne nascono interpretazioni complesse, pensate, come molto di rado capita di vedere nel cinema dell'orrore commerciale. In particolare, la coppia Bill Hader - James Ransone fa letteralmente suo il film, conferendogli la sua anima più forte e personale: non a caso, l'evoluzione del rapporto tra Ritchie e Eddie è l'unico vero tradimento imposto da Dauberman a King, e ciò per cui forse sarà veramente ricordato questo IT.
Di deludente c'è invece il personaggio del titolo: “It”, appunto, qui interamente associato alla sua incarnazione Pennywise. Al netto di qualche confusissimo rimando, la natura lovecraftiana e para-religiosa del “divoratore di mondi” viene messa da parte: resta il classico mostriciattolo che “può colpirti solo se ne hai paura”, una lettura alla Harry Potter già presente nel primo film e di per sé piuttosto avvilente. Anche visivamente, il Pennywise di Skarsagard avrà “più budget”per le sue fantasmagorie infernali, ma resta per lo più un fumoso pastrocchio di pixel e trasformazioni digitali, senza un briciolo della personalità che Tim Curry impose alla sua versione. Le sue scene sono in linea con il tono spensierato dell'insieme, da grosso Scooby-Doo ad alto budget: più jumpscare che tortura psicologica, più colori che trauma. Arrivati al finale, la criticità emerge in un ultimo duello fracassone che pare più che altro la sfida ad un generico supervillain Marvel. E serve a poco far scherzare i personaggi su come “il finale del libro era brutto”. Sappiamo tutti che non è vero.
Il resto del gioco è caccia agli easter egg per i fan (per lo più gratuiti, vedasi il non-ruolo di Silver), e il disperato tentativo di raccapezzarsi tra flusso di eventi e spiegoni per i non-iniziati. Tre ore in un grande Luna Park horror, con attori immensi e un cuore grande e triste a battere sotto. Mettendosi l'anima in pace, è il massimo che potrà mai essere IT al cinema.