John Wick 4
Oltre. Oltre il cinema, lo sguardo, le immagini. Uno straordinario film-software di sincerità spiazzante, che scrive e codifica, inquadratura dopo inquadratura, quasi affascinato dai bug e tiri a vuoto generati dall'operazione. Al suo compimento, la quadrilogia John Wick si conferma tra i testi essenziali per comprendere come pensano, cosa vogliono, le immagini del cinema digitale oggi.
Quanto può essere ironico, e al contempo affascinante, che John Wick 4 elegga praticamente al rango di co-protagonista lo straordinario Caine, l’assassino non vedente interpretato da Donnie Yen?
Conviene, forse, fare un passo indietro, c’è, in effetti, troppo in gioco, sul piano concettuale, per perdere qualche dettaglio di una quadrilogia in realtà densissima di spunti. Partita come una sorta di tributo accelerato agli action movie di Hong Kong, in realtà, dal terzo episodio, la saga sull’assassino interpretato da Keanu Reeves è diventata sempre più un agile saggio che parte dal senso, dalla sostanza del corpo attoriale nel cinema contemporaneo per allargare il focus sugli spazi d’azione, trasformando l’action in un fatto concettuale atto a indagare: il rapporto sempre più mutante tra il nostro sguardo e l’immagine cinematografica, il ruolo della sala oggi, il destino di un cinema che pare sempre più uno spazio museale. Il tutto, quasi, a lasciar intendere che il futuro delle immagini è ben lontano dai suoi spazi tradizionali.
La questione è urgente, bruciante, ma viene da chiedersi se Chad Stahelski la percepisca allo stesso modo. In effetti si è già scritto di come al centro della ribellione alla Gran Tavola di John Wick, di cui questo quarto capitolo racconta apice ed epilogo, ci sia inscritta una guerra tra vecchio e nuovo mondo, ma probabilmente, a partire da questo spunto, si può tranquillamente andare oltre. Colpisce, ad esempio l’affascinante rapporto che intercorre, nella mitologia wickiana, tra spazio analogico, regole e ritualità: la lore è in effetti un tripudio di monete antiche, sigilli, tarocchi utili a definire le regole d’ingaggio di un duello, ma non solo, perché come è già stato acutamente detto, gli unici strumenti che riescono a ferire davvero il protagonista sono, forse non a caso, quelli che hanno in loro una sorta di "germe analogico", e quindi i pugnali, e le vecchie pistole da duello.
E allora è evidente che la ribellione del protagonista è a un certo modo di intendere gli spazi e il rapporto con il reale, agli antipodi del digitale e per questo, tutto da ripensare.
Ma è davvero uno scontro tra ideologie, quello portato in scena da John Wick 4? In realtà tutto il senso del progetto di Stahelski sta nel chiarire questo equivoco, nel riconoscere, ancor meglio, la profondità di un film che in realtà riconosce in modo spiazzante di posizionarsi già al di là di ogni conflitto, di essere già oltre quell’idea di cinema contro cui vorrebbe contrapporsi. Tornando a Caine, la sua entrata in scena in questo senso è fenomenale, tutta giocata sui sensori di posizione disseminati nella cucina per capire da dove arriva la minaccia dei nemici, attaccata alle suppellettili come in certi action si farebbe con i panetti di esplosivo. Caine è già oltre, è già un’entità che sta riplasmando lo spazio in modo nuovo, innovando la natura di un gesto tradizionale. E il passo di John Wick 4 è lucidissimo in questo senso. Si potrebbe in effetti già dire molto di questa scrittura scenica che già si percepisce parte di qualcos’altro, che prova a pensarsi già digitale e dunque concepisce immagini binarie, morte/vive, solide/liquide, granitiche nei loro discorsi ma pronte a contraddirsi alla prima occasione.
E allora davvero, per la prima volta, Stahelski porta le tensioni concettuali del suo franchise in superficie. Fa scontrare i suoi personaggi in ambienti che ormai non provano neanche più ad essere altro se non contesti allestiti per la videoarte o veri e propri musei (uno dei dialoghi del film ha luogo direttamente in una delle sale del Louvre, tra l’altro) come a voler chiudere la questione su schermi e visione una volta per tutte. L'approccio alle immagini è lo stesso di un flusso di dati libero, tutto da manovrare, senza filtri e gerarchie, in cui si lascia che il musical dialoghi con gli Yakuza movie e poi citi apertamente il cinema di Hill nell’ultimo atto; il tutto mentre, in tralice, il film smaterializza il corpo di Reeves, gioca con il focus del racconto, lo sposta su altri personaggi, si muove anche in absentia della sua star lasciando intendere che il killer è stato/non è stato (e ancora, ecco il binarismo dell'immagine) il protagonista finora, o che almeno comprimari come il tracker Nobody non sono/non saranno meno importanti di lui.
Perché, in fondo, il film pare affascinato da una sorta di estetica dell’errore, del paradosso: fa sentire il peso del corpo di Reeves, lascia emergere le linee delle coreografie, si attarda in vere e proprie ucronie, tra samurai che preferiscono le pistole alle spade o l’artista marziale Scott Adkins volutamente ridotto a caricatura fumettosa di sé stesso, si lascia sedurre da spunti che sembrano stagliarsi nel vuoto delle scenografie, quasi fossero allucinazioni, apparizioni, tra la partita di poker a Berlino, evidente residuo bondiano, e la prossemica di Nobody, che spara e agisce come un cowboy brutto di una frontiera alla Leone.
È un film dalla sincerità spiazzante, John Wick 4, quasi un film-software a cielo aperto, un costrutto, un eseguibile inscindibile dalle sue parti di cui Stahelski mostra la scrittura inquadratura dopo inquadratura, comprensiva di bug, sviste, tiri a vuoto, raccontando, in parallelo, il suo prendere possesso di uno spazio inesplorato o quasi. E allora quella del film non può che essere la storia di una trasmutazione del medium, un percorso di elevazione sghembo, liquido, in cui gli spunti si rincorrono, avvengono quasi come profezie, e comunque, senza tregua, si abbandona lo spazio analogico per parlare apertamente un linguaggio digitale già “risciacquato” nella sintassi del gaming, a tal punto che lo splendido finale parigino è puntellato tutto di vertigini da gamification e passanti inermi, che come NPC non sembrano reagire alle sparatorie tra il protagonista e i suoi avversari. Persino Caine, ancora lui, diviene un avatar del villain, costretto a combattere il protagonista al suo posto.
E proprio quel duello sembra essere l’ennesimo bug, l’ennesima contraddizione, quasi che l’epilogo lasciasse intendere che la rivoluzione è interrotta. Ma è davvero così? Forse è una sconfitta solo di facciata. Dopotutto il film per Stahelski è evidentemente un insieme di link, di ipertesti. Uno si è probabilmente chiuso, ma altre gemmazioni narrative sono chiaramente pronte a ripartire da lì.