Ant-Man
Una dichiarazione programmatica di rinnovamento caratterizzata da un’insolita leggerezza di sguardo e più in generale da una smaccata consapevolezza teorica.
L’effetto di miniaturizzazione rappresenta nella storia del cinema fantastico ben più di un semplice espediente narrativo. Considerato l’elevato numero di autori e sceneggiatori che ne hanno fatto uso, si potrebbe persino parlare di un vero e proprio sottogenere che ha attraversato la settima arte, accompagnandone l’evoluzione tecnica. Tra i tanti film del passato vale la pena citare Radiazioni BX: distruzione uomo, l’indimenticabile Salto nel buio di Joe Dante e soprattutto La bambola del diavolo, capolavoro semi-dimenticato del grande Todd Browning, alla sua penultima prova sul grande schermo prima del ritiro anticipato dal mondo del cinema.
L’obiettivo di base è sempre stato lo stesso: indagare le alterazioni percettive e psicologiche che tale cambiamento di prospettiva comporta sui personaggi e sugli spettatori, verificando al contempo la tenuta degli effetti speciali, più o meno artigianali, chiamati a sostenere direttamente l’impianto visivo delle opere. Insomma l’effetto di miniaturizzazione, con tutto ciò che comporta in termini narrativi e registici, è stato e continua ad essere un fertile terreno di esplorazione della macchina spettacolare e delle potenzialità del comparto effettistico. ’ dunque un piacere ritrovare nel 2015 una nuova opera che si misuri con questo particolare artificio. Non un’opera qualsiasi, ma il nuovo capitolo del franchise cinematografico della Marvel Studios, qui all’ultima prova della cosiddetta fase due. E allora non sembra un caso che a tale cesura corrisponda proprio la figura di Ant-Man, ontologicamente legata al cambiamento di proporzioni e prospettive. Una dichiarazione programmatica di rinnovamento dunque, caratterizzata da un’insolita leggerezza di sguardo e più in generale da una smaccata consapevolezza teorica, che ha come primo e più evidente risultato quello di ridurre al minimo il rischio di ripetitività, inevitabilmente insito nel progetto. Le due sequenze che incorniciano la narrazione sintetizzano in modo esemplare tanto l’andamento quanto l’approccio dell’opera: in entrambi i casi il testimone narrativo è affidato momentaneamente al personaggio interpretato da Michael Peña, un ladruncolo da quattro soldi sempre pronto a nuovi colpi, il quale racconta con dovizia di particolari il presunto passaparola che ha preceduto la pianificazione criminale. Due micro narrazioni slegate dal tracciato principale, che per alcuni istanti fanno deragliare l’opera verso territori inaspettati e che denunciano il tentativo degli autori di andare oltre una formula forse scontata.
Il merito di questo deragliamento, a tratti persino autoparodistico quando investe direttamente l’immaginario Marvel, va al regista Peyton Reed e ancor prima al geniale cineasta inglese Edgar Wright, autore del soggetto e della sceneggiatura nonché produttore esecutivo, al quale in un primo momento era stata affidata anche la cabina di regia. Senza dimenticare, naturalmente, Paul Rudd, co-sceneggiatore e soprattutto volto ricorrente della nuova commedia americana firmata Judd Apatow & Co. qui in perfetto equilibrio tra i toni scanzonati del ladro gentile e quelli più dolenti del padre divorziato e inadeguato. Elemento quest’ultimo, che condivide con il personaggio di Michael Douglas, Henry Pim, scienziato a cui si deve la scoperta del siero miniaturizzante e la conseguente nascita di Ant-Man, suo alter-ego fino alla tragica fatalità in cui perse la moglie.
E’ proprio a partire da questo trauma che sembra saldarsi il legame tra il vecchio fisico e il nuovo eroe Scott Lang, entrambi accumunati, come si è detto, da un rapporto problematico con il proprio nucleo familiare, nonché dal peso di un passato carico di errori e rimpianti. Un passaggio di testimone inevitabile dunque, in cui la posta in gioco è il destino del pianeta, minacciato dall’allievo di Pym, pronto a vendere un nuovo siero a servizi segreti e terroristi di mezzo mondo. Ma in fondo, e sembrerà strano dirlo, non è tanto questo l’aspetto più importante dell’opera, e ancor meno lo è lo scontro decisivo, dagli esiti ovviamente scontati. Piuttosto, quel che conta sembra essere tutta la lunga fase preliminare che coincide con l’addestramento di Scott Lang e la conseguente esplorazione di un mondo smisurato e fuori controllo, vis(su)to dalla microscopica prospettiva di un insetto. Il punto è ancora una volta la scoperta di potenzialità inesplorate del corpo e della volontà, nonché di uno sguardo nuovo, inedito sulle cose, che prefiguri un cambio di passo, un salto qualitativo che inverta i rapporti di forza restituendo al protagonista quella normalità tanto agognata. Una normalità che coincide in questo caso con lo sguardo innamorato della propria figlia.