Atlante del sogno
Viaggio nell'immagine di Miyazaki tra pittura e digitale
Si alza il vento. Jiro e l’ingegner Caproni si trovano in una prateria sconfinata e si guardano l’un l’altro, i sogni prendono forma e si librano nel cielo. In questa immagine – reale e mentale al tempo stesso – è racchiuso l’immaginario e lo sguardo peculiare di Hayao Miyazaki. Un immaginario che non si presta facilmente a riduzione linguistica; si tratta di una suggestione, di una visione del mondo con le sue diramazioni etiche ed estetiche.
Cerchiamo di attraversare questa visione, di fissare qualche coordinata. Come nasce l’immagine miyazakiana? Si tratta di un’immagine fortemente pittorica, eppure capace di essere facilmente comprensibile e “trasparente” dal punto di vista cinematografico. Campi e controcampi tradizionali si accostano a quadri veri e propri, dove ad essere in gioco è il rapporto tra l’uomo e lo spazio naturale. Negli ultimi lungometraggi è particolarmente evidente: a Miyazaki non interessa tanto raccontare una storia, quanto costruire un’esperienza estetica strutturata. Il linguaggio del cinema è diluito in una serie di schizzi famigliari, paesaggi, dettagli. Tracciare la genesi del suo cinema significa trovare il punto di connessione tra tradizioni estetiche diversissime: il manga – quello nato con l’occupazione e la circolazione di fumetti americani – e l’iconografia giapponese che già ne anticipava il linguaggio, il cinema classico hollywoodiano e quello di Kurosawa e Mizoguchi, la pittura orientale ed occidentale. Si alza il vento, così come tutti i film del fondatore dello studio Ghibli, è frutto di una mediazione. Quasi tutta la cultura contemporanea giapponese è negoziata con quella occidentale e globale, a partire da Godzilla. Tuttavia, con Miyazaki i termini di questa negoziazione sono più profondi.
Inizialmente influenzato dall’autore di Astro Boy, Miyazaki ha avuto difficoltà a trovare il proprio stile, in particolare per quanto riguarda la figura umana. Quando ha trovato la propria chiave espressiva, ha optato per una rappresentazione dell’umano a metà tra manga e fumetto occidentale. Il tratto degli occhi e i caratteri fisici sono il risultato di una costante rimediazione tra culture e linguaggi visivi, non esente da modulazioni – la figura umana ne La città incantata è distante da quella di Kiki consegne a domicilio, per esempio – ma sostanzialmente coerente. Suggestioni nuove – ad esempio dall’opera di Makoto Shinkai – e nuove tecniche di animazione – l’uso dell’animazione digitale e della colorazione digitale da La principessa Mononoke in poi – si sono stratificate su un insieme di icone e una grammatica precedenti. Il perno di questo equilibrio, di questo grande cantiere tra immaginari, è la dialettica tra personaggio e natura; in altri termini, la cura nella messa in quadro del rapporto tra natura e cultura.
Le radici del suo cinema sono, allora, da rintracciare prima del cinema e del decoupage, prima dei fotogrammi e del digitale. Di nuovo, bisogna tornare alla pittura, con la sua rappresentazione allegorica di emozioni, conflitti e rapporti di forza. Alla pittura giapponese – per la sua concezione spaziale, per l’afflato narrativo che caratterizza alcune delle sue manifestazioni – e a quella europea, in particolare la pittura romantica. Ancora una mediazione: la donna di cui Jiro si innamora dipinge su tela come un pittore francese. Così come il suo cinema e i suoi personaggi, anche la tavolozza dei colori è un ibrido frutto di curiosità e voglia di superare confini. Un romanticismo postmoderno, che talvolta vira verso l’impressionismo, a metà tra Friedrich e Turner. Il rapporto dialettico tra uomo e natura è l’occasione ideale per far deflagrare i temi prediletti di Miyazaki: libertà, responsabilità, ricerca del proprio posto nel mondo. Se è vero che stilemi romantici possono essere rintracciati un po’ ovunque nella cultura pop nipponica – nel cinema, nel fumetto, nei videogiochi – Miyazaki se ne è appropriato e li adotta con una naturalezza disarmante e senza eccessi di formalismo. La campagna giapponese e gli interni famigliari sono ritratti con la stessa efficacia delle periferie degradate e dei capannoni milanesi.
La priorità di Miyazaki resta comunque il sogno, popolato o meno da creature sovrannaturali e animali ancestrali. La sua priorità è che lo spettatore sia parte di questo sogno, vuole emozionarlo nel senso etimologico del termine: smuoverlo, spostarlo fuori. Il volo ne è la dimensione naturale, volo che è al centro di così tante opere del regista giapponese. La capacità di Miyazaki di coinvolgere lo spettatore e di portarlo per mano in un mondo altro è la vera forza del suo cinema così potente, raffinato e popolare al tempo stesso. Tale coinvolgimento è il risultato di un linguaggio creolo, una lingua franca cannibale e poliedrica, capace di straordinario realismo così come di squarci nella dimensione del simbolo e della rêverie. Si alza il vento può essere letto come il test di rottura per questo linguaggio: così come l’aereo di Jiro deve resistere alle condizioni limite e mantenere la propria integrità, allo stesso modo il cinema di Miyazaki è qui sottoposto alle condizioni meno pittoriche e favolistiche possibili: la guerra, la povertà, le macchine, la morte, i particolari ingegneristici dell’aeronautica di cui Miyazaki è notoriamente appassionato. La scommessa del regista è, per quanto ci riguarda, vinta: irrimediabilmente risucchiati nell’ambiguo sogno di Jiro, lo abitiamo e lo esploriamo, spinti dal suo gioco di pieni e di vuoti, di desideri e di frustrazioni. Sui titoli di coda, vediamo alcune immagini tratte dal film, ma i personaggi non ci sono più: solo luoghi vuoti e disabitati, tavolozze senza pittori. La natura silenziosa, paesaggi pronti per essere vissuti e immaginati.