The Bad Batch
Cannibalismo postapocalittico, fascinazioni anni ’80 e derive pop per il secondo film della Amirpour.
Dal vampirismo melanconico di A Girl Walks Home Alone At Night al cannibalismo postapocalittico di The Bad Batch: il percorso di Ana Lily Amirpour si fa sempre più bizzarro. Alla tenerezza corvina del primo film fanno eco le lande desertiche del secondo, come fughe dell’occhio aperte a profondità orizzontali, sempre in attesa di un arrivo, di un evento, di una comparsa che non sia l’ennesima fata morgana. Forse la cosa a cui più somiglia The Bad Batch è proprio un miraggio, un film imprendibile, inafferrabile, alieno ben oltre i rimandi di cui è inseminato (Carpenter è il primo nome che viene in mente e non è certamente un caso).
Una donna cammina nel deserto, un corpo attoriale che pare uscito da un incrocio impossibile di Mad Max: Fury Road e un Russ Meyer riletto da Rodriguez. Davanti a lei il nulla. Inesauribili possibilità di narrazione: chissà quale catastrofe ha distrutto la civiltà, chissà quali spettri si aggirano in questa nuova distopia. Poi all’improvviso una traiettoria, traccia o minaccia incombente: una macchina nel deserto che porterà la protagonista all’interno di una comunità di cannibali. Il film si scopre sgradevole, trovando un trait d’union tra marcio e macho, sexy e putrido. La bella eroina di turno viene deturpata, ritrovandosi senza un braccio e una gamba, provando a fuggire supina su uno skate. E da lì in avanti assistiamo a una sorta di macchina underground impazzita: la messa in scena di un’America post-trumpiana, di confini e di frontiere, di freaks e artisti cannibali, di droghe e trip universali.
The Bad Batch si fa polimorfo, passando con disinvoltura dal survival-movie alla fantascienza più kitsch. La Amirpour dimostra un’estrema padronanza del linguaggio cinematografico, mixa, un passo dopo il postmoderno, suggestioni anni ’80 e derive pop del nuovo millennio. Crea un inferno musicale dove agisce mediante contrappunti stilistici, mentre nel contesto crudissimo in cui si muove insinua un romanticismo remoto e orgogliosamente fuori tempo massimo. Non sempre è in grado di tenere a freno le sue ambizioni: il film osa, rischia e cade, perché attratto ossessivamente dai corpi dell’immagine, dall’erotismo muscolare e dai "resti" della civiltà.
Pretenzioso? Un po’ furbetto? Ammiccante? Certamente, eppure è proprio in questo continuo ardire, in questo gioco sensuale e orripilante di carne, generi e superfici dell’immagine, che il film trova il suo fascino. Ritornano quali meteore Keanu Reeves, Jim Carrey, Giovanni Ribisi come a confermare le fascinazioni anni ‘80/’90 del film, la passione ora martoriante, ora pacchiana, ora perfino sentimentale di una regista cresciuta troppo in fretta. Piaccia o non piaccia, la sua è una regia musicale (chissà che non giri i suoi film a partire dai brani che sceglie), in grado di regalare alcune sequenze davvero mozzafiato. Manca una visione d’insieme, qualcosa che possa tenere saldamente in piedi tutta la baracca, ma forse alla regista nemmeno interessa.
Rimane un rimpianto, quello di un passato che non può essere più alterato, fino al desiderio di una macchina del tempo che non arriverà mai. Potremmo chiederci, certo, dove voglia arrivare questa strana distopia, considerare The Bad Batch solo un mero esercizio di stile. O forse, più semplicemente, pensare che alla fine non resti che un unico, sacro desiderio: quello di un piccolo affetto, di un po’ di calore o di un abbraccio che possa salvare il genere umano dalla paura per l’altro. Forse. Quello che è sicuro che è la Amirpour rimane un enigma da cui potremo aspettarci di tutto in futuro.