Con Barricata San Calisto I Sotterranei e Point Blank proseguono il ciclo monografico iniziato la settimana scorsa con Prigionieri di una fede, ovvero il recupero del percorso documentaristico del regista de Gli equilibristi, Ivano De Matteo, autore oggi maggiormente conosciuto per i suoi lavori di fiction, ma che vanta nel suo decorso anche un visibile sforzo in direzione del linguaggio documentaristico. Di tale tipologia fa per l’appunto parte questo Barricata San Calisto, affresco pittoresco di una romanità ormai in via d’estinzione, metaforizzata in quello che, secondo il regista, è l’ultimo zoccolo duro di una Trastevere mutata ed evolutasi nel tempo: il Bar San Calisto.
L’opera, girata nel 2000, segue uno schema classico e lineare; parte con l’apertura del bar, in mattinata, e prosegue alternando molteplici episodi uno in coda all’altro, fino ad’arrivare con essi alla fine del film, che viene fatta coincidere con la chiusura del bar stesso, come a voler suggerire l’impressione che il tutto sia stato girato in un’unica giornata.
Meno ortodossa e piacevolmente sorprendente invece l’idea utilizzata per la realizzazione dell’incipit dell’opera. Per introdurci al documentario infatti, De Matteo rispolvera un vecchio e colorito espediente molto caro soprattutto al cinema classico e d’animazione, ovvero quello di rappresentare i titoli di testa e le didascalie introduttive tramite le pagine di un libro, che si spiegano in avanti in accordo con la voce narrante in fuori campo. Con questa apertura, che rimanda senza meno a La spada nella roccia di Reitherman, è manifesta la volontà di approcciare l’opera con un tono fiabesco e nostalgico, facendo un po’ il verso a quei vecchi e melanconici stornelli romani che rimpiangevano apertamente la Roma “di una volta”, la Roma sparita.
La prima sequenza dell’opera, invece, è quasi un montaggio di fiction; moderatamente godibile nella prima parte, che si muove sulle note de La marcia dei Nani di Grieg, perde invece d’efficacia nella seconda, quando il testimone musicale passa al Valzer dei Fiori dello Schiaccianoci ?ajkovskijano, qui visibilmente fuori luogo. A seguire ci vengono mostrate delle foto della vecchia Roma che, sulle note per l’appunto dello stornello Vecchia Roma (forse in assoluto il più nostalgico), sono un po’ il manifesto del film tutto; ovvero un melanconico rimpianto dei modi, della gente e della cultura del passato.
Una cultura che De Matteo cerca di catturare proprio nel piccolo contesto del bar San Calisto, punto di ristoro secolare che accoglie senza discriminazioni tutte le diverse tipologie di persone che la capitale offre; ladri, artisti, zingari, politici, operai, studenti e, ovviamente, “trasteverini”. Un piccolo calderone nel centro di Roma dunque, un contenitore antropologico nel quale De Matteo sceglie di dare visibilità in particolar modo all’ultima tipologia di abitanti sopracitata. Il regista riprende (e crea) così piccoli episodi, sketch nei quali viene sfoggiata quella romanità scherzosa e canzonatoria, a volte eccessivamente volgare ma quasi sempre vera, genuina e affatto estinta.
A ben vedere però, nell’atmosfera “caciarona” del bar San Calisto, il sentimento che maggiormente si avverte non è l’allegria bensì la nostalgia del passato, la memoria, il ricordo di quella Roma d’un tempo non ancora così profondamente invasa dalla globalizzazione e dal progresso. Tuttavia, sebbene lo sforzo antropologico sia senza dubbio apprezzabile, soprattutto per gli estranei al contesto di “romanità”, nel complesso l’integrità dell’opera è decisamente marchiata da una mancata profondità di sguardo, di ricerca. I temi trattati vengono affrontati solo a livello superficiale, generico; gli argomenti non vengono mai sviscerati, approfonditi, ma solo mostrati, sovrapposti l’uno di seguito all’altro senza altro fine al di fuori di quello folkloristico, lasciando avvertire il tutto più come una dichiarazione d’amore di un regista romano alla sua città, che una vera e propria ricerca antropologico/culturale. Si avverte, in ultima analisi, la mancanza di un background storico, di una ricerca culturale che senza dubbio avrebbe dato maggior spessore all’opera, spingendola oltre i limiti del caratteristico per giungere infine a uno scopo più alto, che avrebbe potuto aprire interessanti orizzonti per una più profonda e coscienziosa riflessione sul territorio, sul progresso e sulla cultura della Capitale italiana.