In una terza giornata avara di emozioni a prevalere sembra essere stato soprattutto il cinema italiano, con le nuove opere di Daniele Ciprì (Concorso) e Ivano De Matteo (Orizzonti).
E’ stato il figlio di Ciprì sembra all’apparenza il naturale sviluppo del suo cinema precedente firmato a quattro mani con Maresco, con i suoi quadretti grotteschi, i suoi freak e le inquadrature frontali sulla sconfinata periferia palermitana. Eppure qualcosa non torna: la storia della famiglia Ciraulo, prima sconvolta dal lutto della figlia più piccola e poi unita dal denaro derivante dal rimborso per le vittime di mafie, vorrebbe raccontare un’Italia grigia, disperata, eccessiva ed omologata, che aspira al benessere più come raggiungimento di uno status sociale da esibire (la macchina) che non per autentica necessità, ma sconta il peccato di non prendersi mai del tutto sul serio, o meglio di farlo sbagliando clamorosamente il tono. Perché se è vero che il ritratto caricaturale e l’eccesso grottesco risultano azzeccati nella rappresentazione dei caratteri e del contesto, forse Ciprì non è riuscito a gestirlo efficacemente. Sin dalle prime battute si ha l’impressione di trovarsi di fronte ad una farsa che preferisce la deformazione rispetto all’aderenza realistica, la scenetta comica rispetto all’approfondimento psicologico.
Niente di male in questo, peccato però che il regista dimostri di averci preso abbondantemente la mano e di non esser dunque riuscito a gestirsi, con il risultato di aver prodotto un’opera schizofrenica che punta alla risata amara ma vorrebbe anche far riflettere, che parte come una commedia ma poi approda alla tragedia. Il problema di fondo è che la svolta drammaturgica arriva troppo tardi, cosicché quando esplode il dramma questo appare come disinnescato, azzoppato dagli sviluppi precedenti. La storia esemplare che Ciprì mette in scena ha in realtà diverse note degne di interesse, prima fra tutte il continuo gioco di rimandi tra passato e presente che, lungi dall’essere un semplice pretesto narrativo, svolge la funzione di evidenziare il vuoto del presente con la casa di famiglia ormai disabitata e l’ufficio postale semi deserto. Un presente immobile che incatena il personaggio principale impedendogli di volgere lo sguardo verso l’avvenire o anche solo pensare o progettare un futuro. Come dicevamo in precedenza però questo rapporto dialettico emerge con eccessivo ritardo: non bastano alcune belle idee di regia (la semi soggettiva della bambina in auto, la sequenza finale) a salvare l’opera. Così alla fine rimaniamo insieme con Alfredo Castro, immobili e attoniti a guardare il piazzale sporco di sangue, e a rimpiangere quello che il film sarebbe potuto essere e purtroppo non è stato.
Di segno completamente diverso il terzo film da regista di Ivano De Matteo, Gli equilibristi, che approda per la prima volta al lido con un’opera fortemente ancorata alla contemporaneità nel raccontare la discesa verso l’abisso di Giulio, quarantenne impiegato alle poste che vede crollarsi il mondo addosso in seguito alla sua separazione dalla moglie. Con uno stile secco e rigoroso De Matteo ci traghetta nel calvario di un uomo qualunque, che per una serie di circostanze si ritrova a dover lottare per la propria sopravvivenza, senza mai perdere il controllo sul materiale filmico e senza eccedere nei toni melensi. L’elemento che più colpisce del film è la precisione con la quale vengono raccontati i luoghi e le facce della Roma che fa da sfondo all’opera. Una Roma sotterranea e clandestina, a tratti irriconoscibile, nella quale convivono vecchi e nuovi poveri, italiani e stranieri, giovani e anziani. Una Roma violenta e disumana dove la solidarietà sembra quasi un miraggio. Gli unici a mostrare un po’ di compassione per Giulio e a fornirgli un aiuto sono non a caso o vecchi amici d’infanzia (che però, per un motivo o per un altro, abbandonano l’uomo al suo destino) oppure stranieri. E’ proprio in questi ultimi che il protagonista sembra trovare un reale supporto, come se di colpo fossero saltati i confini, le identità nazionali e le distanze. Come una specie di Umberto D contemporaneo, Gli equilibristi mostra il viaggio solitario nel cuore della notte di un uomo solo, escluso dal mondo, che però non accetta il proprio destino. Non a caso il film condivide con il celebre capolavoro desichiano anche il gesto disperato di un tentativo di suicidio e, proprio come Umberto D, anche questo sceglie alla fine di regalare una piccola nota di speranza. Ma senza illusioni o facili buonismi: il sentimento di angoscia che ci ha accompagnato per tutto il film prosegue ben oltre i titoli di coda e non basta una telefonata, per quanto inaspettata, a mandare a casa gli spettatori felici e contenti.
Nell’ambito del fuori concorso ieri è stato anche il giorno di Spike Lee e del suo documentario sulla lavorazione del celebre Bad di Michael Jackson. Il film, assolutamente canonico nella forma e nella struttura, rivela aspetti interessanti solo nei racconti di alcuni intervistati e soprattutto negli aneddoti legati alle lavorazioni di alcuni videoclip, tra cui emerge quello firmato da Martin Scorsese ed interpretato da un esordiente Wesley Snipes. La scelta assolutamente felice di far dialogare musica e cinema, fulminanti visioni cinematografiche (Minnelli, Fred Astaire, Il terzo uomo) e le performance di Jacko appare non solo azzeccata ma necessaria visto l’importanza che la settima arte ha rivestito nella vita del cantante. Perché l’opera di Michael Jackson è inevitabilmente legata anche alla sua rappresentazione scenica, alla potenza del corpo, alla precisione e all’armonia dei gesti.