“Non accade nulla, nessuno arriva, nessuno se ne va, è terribile!”
Aspettando Godot, Samuel Beckett
“Non accade nulla” – nell’attuale scenario del cinema italiano e non solo, – “nessuno arriva, nessuno se ne va, è terribile!”. Aspettiamo anche noi che qualcuno arrivi e ci tiri fuori dalla terribile colla dell’aridità? Oppure che ci risollevi dal sentimentalismo italico o dal pietismo degli sconfitti che vi hanno provato? Aspettiamo anche noi che abbiamo aspettato già tanto? Aspettiamo anche noi Godot? Forse si o forse no. Forse, appunto, come poter abbandonare quest’avverbio, noi che da sempre restiamo attanagliati ad un presente ipotetico? Le nostre parole hanno perso senso del tutto, i loro significati si sono sbiaditi, privi di vivacità, la scorza che li circonda e che li protegge dalla totale distruzione è l’unica cosa che ci rimane e che li salva dal genocidio della loro pronuncia, della loro calligrafica resistenza, della parola stessa. Ormai il significato l’abbiamo svenduto. Ciò che prima chiamavamo Cinema adesso non è nient’altro che cinema. E tra poco, forse domani, massimo dopodomani… finché dura, noi, come Star anonime in un cielo post-industriale troppo denso… aspettiamo.
Freak (Luciano Curreli) e Jajà (Jerome Duranteau), o Didi e Gogo, o Vladimiro e Estragone, o Caio e Tizio che tanto è uguale, sono due uomini soli e dipendenti ed aspettano Godot. Il paesaggio è sterminato intorno a loro, immerso in una desolazione post-atomica e privo di qualsiasi richiamo alla vita; anche i loro corpi non trovano risonanza nello sterminato spazio circostante. Ogni tanto appaiono alcuni strani personaggi contraddistinti da una grottesca fisicità apparente: un Mariachi cantastorie (Robert Freak Antoni, cuore degli Skiantos), un Adamo imbruttito e succube di un’Eva isterica e lesbica e degli uomini in nero, 0 6 e 0 8, il primo un cowboy che viaggia su una Panda (Francesco Gifuni) e il secondo (Paolo Rossi) che la sua fisicità apparente ormai l’ha persa, trasmesso solo da una videochiamata con 0 6. Altri elementi propri del lavoro di Beckett rimangono, come il bambino mandato ai due che rinvia l’incontro al giorno successivo. In più una fermata, dove Freak e Jajà ciclicamente si recheranno ed un autobus che mai prenderanno, che non si fermerà e che viaggerà sempre su un tappeto d’aria che alzerà quanto basta per non essere afferrato al volo.
Davide Manuli, regista borderline italiano, è nato dal teatro e non lo nasconde neanche quando si presta alla regia cinematografica. In Beket il regista si confronta con il suo mentore teatrale, quell’autore che molto spesso, nel suo non-sense, nell’attesa, nella dilatazione temporale, nell’azione inutile, tanto aveva visionariamente profetizzato del nostro stato d’animo di assurdità contemporanea. Se in Beckett la parola non combaciava mai con il significato della stessa, sempre disattesa dal commento exstratestuale, qui la parola diventa ridondanza e avvicinamento ad un infinito eterno che non smuove niente. Gli unici elementi che riescono a persistere sono i corpi, ripresi in tutta la loro malleabile astrazione, che mantengono la funzione di Verbo al di là della parola stessa. Il luogo dove Vladimiro ed Estragone si incontrano è popolato da reietti purgatoriali che attraverso il loro emaciato didascalismo non interagiscono mai veramente con il duo ma che instaurano con esso solo delle cicliche riproposizioni di assurda e sacra routine. Solo la musica elettronica riesce a far comunicare, senza fraintendimenti, i corpi che la ballano. Ecco, forse Godot non lo vedremo mai, non lo incontreremo mai ma ciò che sentiremo è solo il suo suono elettronico che attraversa lo spazio come un naturale conduttore sonico, unendo i corpi attraverso la sua martellante ripetizione. “In una condizione di solitudine l’uomo trova più appagamento interiore con la musica che con l’immagine” ci ricorda il regista.
In un’intervista rilasciata a Bizzarro Cinema Manuli ci dice anche come è nato il film: “Beket è nato da una profonda frustrazione, esplosa dopo due anni passati nei corridoi ministeriali aspettando finanziamenti per un altro film: Do???…Ping!. Ho passato sedici mesi subendo quattro rinvii per approfondimenti istruttori e facendo cinque audizioni per poi finire con un “approvato ma non finanziato”, equivalente a bocciato.” Detto questo, che significato può avere un film del genere? Quello che risalta agli occhi è un lavoro che cerca di sciogliere la grande metafora di fondo del film stesso, contestando in chiave riflessa l’instancabile attesa di grigi eroi all’interno di grigie strutture amministrative culturali nostrane. Un film per pochi si potrebbe dire, un film pretenzioso, intellettuale, troppo intellettuale anche per gli intellettuali, un film per far arzigogolare strutture cerebrali cinetiche, un film per criticismi critici o per pazzi sgangherati ma, anche, un film attuale, drammaticamente attuale, un film per tutti quelli che attendono alla fermata del tram, che aspettano perché “ora non passa” e dopo neanche, per chi ha un’idea ed aspetta di realizzarla, per chi non riesce a vivere ma aspetta di poterlo fare. Un film denso di solitudine non condivisibile.
Regista già nel lontano 1998 di un film molto apprezzato dal titolo Girotondo, giro attorno al mondo e prossimo alla sua terza prova registica con La leggenda di Kaspar Hauser, Manuli e l’indipendentissima Bluefilm si orientano nel disordine della nostra cinematografia attraverso questa metafora senza storia e senza confini, che strizza l’occhio al western lurido di Ciprì e Maresco stimolando l’elasticità mentale di qualsivoglia spettatore. Beket non è nient’altro che lo specchio di chi lo osserva, un riflesso sui più limitrofi limiti mentali di chi lo guarda. Non solo dal punto di vista culturale; anche se non si conoscesse l’opera di Beckett il senso di interminabile vuoto di tempo e di spazio arriverebbe comunque. Questo per dire che tanto più sarà elastico e flessibile il pensiero intellettuale (nell’accezione metafisica del termine) dello spettatore e tanto più sarà lontana e remota la destinazione del pensiero sul film. E noi, ad oggi, non possiamo che rifletterci nell’assurdità Beckettiana e trovarci più rarefatti, quasi immateriali, incapaci di immanenza storica, come fantasmi di ciò che dovremmo essere ma ancora non siamo e con la falsa speranza di un’attesa che presto ci ricompenserà, se non adesso, domani, massimo dopodomani … intanto il tempo passa e quello che di noi rimane è sempre meno, è più diluito, sciolto dentro un’immagine che più non ci appartiene e che non riconosciamo: giovani fisicamente astratti.