“Girogirotondo, mi faccio un giro intorno al mondo,
il sole non è cambiato, la terra non è cambiata,
l’acqua non è cambiata…
perchè uomo tu sei cambiato?”
Invisibili e nudi su un campo a ciuffi, con la droga nelle vene, fatti dal siero di una libertà gastrica, intestinale, un modo per sentirsi vivi facendosi marcire, tutti abbracciati, tutti amici: inizia il girotondo. E ci muoviamo e balliamo con la musica che circola nelle arterie, ma non potendo essere protagonisti nel mondo, non potendo perdersi nella rotazione terrestre, giriamo noi e il mondo intorno gira, tutto sembra muoversi, e noi ridiamo ma non capiamo che è tutta un’illusione, stiamo prendendo per il culo le leggi di gravità, ci stiamo confondendo con il moto statico, giriamo su noi stessi e rimaniamo sempre lì, fermi nello stesso identico punto di partenza. Finché tutto finisce, l’attimo è svanito e la nostra forza cinetica si è esaurita nelle vene: datemi un gettone marrone che è arrivato il momento di farsi un altro giro.
In movimento continuo, la musica in testa e l’eroina in corpo, cercando d’ingannare il movimento del pianeta dei perdenti. L’invisibilità dei pezzenti e dei disperati ingannata dalla droga. All’inizio è Caos. Un Caos iniziato facendo il nostro primo girotondo. Poi è teatro e cinema, è Beket, ordine e silenzio paesaggistico infranto da sobbalzi elettronici. Ma qui ancora non ci siamo fermati alla fermata degli statici; come i personaggi di un tempo che si espande nello spazio, perdendone i connotati diacronici a favore di quelli sincronici, trasformandosi quindi in attesa e distanze naturali incolmabili, come quella stasi del luogo e dello spazio vissuta dai personaggi di Beket, opera seconda di Manuli da noi precedentemente analizzata. Ma prima ancora della beckettiana attesa smarrita nello spazio sardo, nel lontano 1994, Manuli firma la sua opera prima, Girotondo, giro intorno al mondo, accogliendo parecchi consensi critici e pochi plausi pubblici. Distribuito male e capito peggio. Riproposto nel 2012 a Venezia nella Giornata degli Autori, parzialmente rimontato dallo stesso regista.
Angelo è un tossico, orfano cresciuto con una donna nomade. Il suo migliore amico muore di overdose e lui cerca di reagire alla perdita incontrando Serena, giovane prostituta di periferia. Tra loro molti personaggi, reali tanto quanto irreali, personaggi già scomparsi oltre il limite dell’esistenza, una precedente ragazza in punto di morte, due tossici che vivono in una barca, un campo nomade e i suoi abitanti, un caffè italiota pieno di gente folle.
Il film si muove in un continuo girotondo di personaggi, situazioni, ricordi e musica elettronica. Tutto è in frenesia, dal tossicoche non perde l’attimo per farsi una pera, agli stessi che dopo averla assunta si dibattono in un fragoroso ballo psichedelico. Un’immagine ne richiama un altra, ogni immagine mantiene la sensazione dell’immagine precedente ed anticipa quella successiva attraverso un montaggio per nulla lineare, anzi, sfasato e sensazionale, sinestetico tanto quanto quello avanguardistico russo. Il film è un piccolo e ben riuscito risultato di postmodernità cinematografica a basso costo, la musica e le immagini del movimento bagnano ed immergono (tenendo fede alle definizioni di Jullier) in un fluido sensazionalistico chi lo guarda, la vita statica e decadente dei personaggi viene avvolta in un’estasi elettronica e la struttura del racconto si piega alla fluvialità del pensiero e all’effetto fantasmatico della droga stessa. I personaggi vogliono resistere al movimento terrestre, vogliono rimanere e persistere anche solo lasciando un segno sulla terra, un segno materiale come un figlio, un’impronta del loro passaggio nella loro vita tossica e mai vissuta. Vogliono ballare e girare con il mondo intero ma non riescono perché poveri di carattere, allora lo assecondano cercando di superarlo, accellerandone il ritmo con l’eroina. In quel momento tutto gira e loro sono vivi e protagonisti del loro girare. Ma quando tutto è finito quello che rimane è lo stesso parziale metro quadrato dove loro hanno finto di agire sul reale. La vita continuerebbe anche se non continuassero a girare nel loro girotondo, il pianeta completerebbe ugualmente il suo giro intorno al suo asse, sarebbero comunque investiti incosciamente del suo girare anche se rimanessero fermi ad ascoltare il rumore del suo moto di rotazione. Angelo e gli altri si sentono vivi accellerando, ma accellerando si può benissimo girare a vuoto e finire sempre dove tutto è cominciato, senza aver mosso niente senza aver agito cosicché tra la stasi ed il moto continuo e frenetico non rimane alcuna differenza. Anche in questo film come nel successivo è dato alla musica elettronica il compito di muovere “le viti del mondo”, sia in questo dove diventa movimento esplicito, sia in Beket dove diventa movimento, fisico e mentale, in grado di riempire i vuoti dichiarati nell’eternità del luogo e dell’attesa beckettiana. Se nel successivo film, Beket, Manuli usa il cinema come specchio della sensibilità mentale dello spettatore, in questo, il cinema diventa specchio dell’autorialità del regista stesso, uno specchio\\\\film nel quale lo spettatore può riconoscere gli echi più istintivi di un’espressività forte e battagliera, un film di pancia nel quale poter riconoscere i tratti dell’istintività attoriale del primo Cassavetes, l’atemporalità storica e periferica di un Pasolini, la droga acida di Boyle, la disperazione salvifica di un Ferrara oppure i girotondi ed il nomadismo di un Kusturica.
Manuli è partito dal moto accellerato ed è arrivato alla completa stasi dell’individuo moderno, visioni diametralmente opposte di un’impotenza di azione sul reale, di un tempo o troppo serrato o troppo dilatato nello spazio, un tempo cannibale di attimi perduti. Ogni istante si sostituisce al successivo, senza ricordo, senza futuro, solo movimento dove tutto ruota e gira sempre uguale, o grande vastità spaziale dove l’uomo non è nient’altro che la propria controfigura, dove il cervello è sclerotizzato a discapito dei muscoli che ne muovono la scocca di carne, oppure diventa accelerazione che impedisce di mettersi a fuoco, dove tutto rimane ciò che è sempre stato mentre l’uomo è il solo essere a cambiare.
Autore, Manuli, che attendiamo con la sua terza opera in distribuzione proprio in questo periodo, La leggenda di Kaspar Hauser, che speriamo sottolineerà la capacità di un autore sinceramente diverso e dissonante nel nostro cinema; un cinema gonfio di prassi incrostate, di novità già battezzate, un cinema in lenta agonia e, restando fedele ad una scena di questo film, un cinema fobico dello spaghetto italiota, che vede in quest’ultimo simbolo non un saporito e autoctono prodotto nostrano di esportazione, ma un profumato spago per strozzare il pubblico e con esso tutto il nostro santo, sciapo e borghese perbenismo intellettuale.