Bifest 2015 / Lucia de B.
Il film di Paula van der Oest assume le sembianze del thriller giudiziario, sopratutto per merito della storia raccontata, ricca di suspense e appassionante come un piccolo, piccolissimo Zodiac.
Nei Paesi Bassi i cognomi dei sospetti vengono abbreviati o parzialmente modificati per proteggere la loro identità. Il titolo del film acquista di conseguenza un tono beffardo: la vicenda narrata è ispirata infatti ad un clamoroso errore, o meglio orrore, giudiziario. L’infermiera professionale Lucia de Berk è stata condannata all’ergastolo e al trattamento sanitario obbligatorio, dichiarata colpevole di sette omicidi e tre tentati omicidi. Una caccia alle streghe del duemila, un processo costruito senza prove oggettive, basato essenzialmente sulla presenza di Lucia negli ospedali al momento dei decessi. Con diverse aggravanti: scarsa vita sociale, una passione per i tarocchi e per i romanzi thriller (che in un paio di occasioni Lucia non avrebbe restituito alla biblioteca dell’ospedale, quindi almeno un reato l’ha davvero compiuto!), un passato drammatico. Ed ecco che l’etichetta di serial killer (ma anche la più suggestiva “Angelo della morte”) viene utilizzata dalla stampa per la presunta responsabile di una serie di crimini che si riveleranno non essere affatto tali. Del thriller, il film di Paula van der Oest assume le sembianze, sopratutto per merito della storia raccontata, ricca di suspense e appassionante come un piccolo, piccolissimo Zodiac. Un caso che ha molti tratti in comune con altre vicende giudiziarie, che accadono molto più spesso negli Stati Uniti, e che osservate da lontano e con freddezza sembrano incredibilmente motivate da una sorta di ipnosi collettiva.
La pellicola inizia con la giusta dose di sinistra ambiguità, costringendo il pubblico a guardare Lucia con sospetto: in una delle prime scene è lei a prendersi cura di un neonato, e i brividi corrono lungo la schiena. Quando il piccolo muore, la polizia interroga le colleghe di Lucia, che la accusano di essere una antisociale, di dare ordini come un dottore, e di essere spesso presente, troppo spesso, quando si verificano decessi di bambini e persone anziane. La dirigenza dell’ospedale rincara la dose, dando a Lucia qualche giorno libero e preparando intanto una ricerca statistica con lo scopo di dimostrare la fondatezza dei sospetti. Intanto Judith, neolaureata in giurisprudenza e desiderosa di mettersi in mostra per essere assunta presso la procura distrettuale, indaga con particolare zelo – e disprezzo per Lucia – guidando il carrozzone giudiziario-mediatico che porterà l’infermiera a passare sei anni della sua vita in carcere. Finchè, con i primi dubbi, il castello accusatorio inizia a sgretolarsi, almeno nella sua testa, fino a crollare del tutto, e spingerla a cercare la verità.
Paula van der Oest ha confezionato un prodotto di taglio prettamente televisivo, servendosi del thriller e ovviamente del genere giudiziario, senza particolari guizzi registici ma con i tempi e le luci giuste. Un eventuale remake americano (impossibile non pensare a David Fincher) troverebbe terreno fertile, e ci sarebbe molto da scavare, in special modo nella contrapposizione tra Lucia e Judith. Da segnalare la inquietante presenza nel cast di Annet Malherbe, che spicca su tutte e tutti, perfida e autoritaria nei panni severi del procuratore distrettuale, e che abbiamo precedentemente ammirato in Borgman. A dare il volto a Lucia è invece Ariane Schluter, una nota attrice di teatro olandese, molto brava e credibile in un ruolo impegnativo: è riuscita a trasmettere una sensazione di notevole forza, la forza di chi ha un passato triste e doloroso, di chi ha subito traumi che non guariranno mai del tutto. Ma proprio grazie a un passato così pesante, si diventa forti e in grado di reggere un peso che per altri sarebbe insostenibile. La Schluter è stata in grado di mettere in scena tutto questo e trasmetterlo con il suo sguardo severo.