Ieri/oggi - Tornare a "The Social Network"
Uomini e Media: le manipolazioni di Mark Zuckerberg, Herman Mankiewicz e David Fincher, e il tempo che (non) ci separa da The Social Network.
Il facile bilancio di vita, il the way we were nostalgico che si accompagna puntuale al recupero di vecchi classici, suona straniante parlando di un oggetto come The Social Network. Il film che, tra le altre cose, testimonia l'inizio della scomparsa di una temporalità storica in favore del nuovo eterno presente dei media digitali (dove la velocità è decuplicata e, al contempo, tutto si dissolve in un magma atemporale), non era un film “previdente” allora e non è infatti invecchiato adesso. Dire che sembra uscito ieri non è una frase fatta, ma la constatazione del suo stesso discorso. Pensare a cosa fossero le nostre vite prima dei social media dà quasi le vertigini, come si trattasse di rievocare un tempo impossibile; il decimo film di David Fincher è uscito appena dieci anni fa, ma l'era tecnologica che racconta ci appare più lontana del Muro.
Tutte quelle patologie sociali cui lo scorso decennio ha dedicato fior di analisi sociologiche a tinte strutturaliste/materialiste/cognitiviste sono a loro modo presenti nel vangelo del nuovo secolo di Sorkin e Fincher. Uno spartiacque, se vogliamo, nonché unico film ad aver inquadrato in tempo reale quelle mutazioni cui si sarebbe iniziato a dedicare la dovuta attenzione soltanto negli anni successivi – ma che già andavano manifestandosi nei prodotti più commerciali del cinema americano. Più che un acido-algido racconto gatsbyano, il testo pare quindi un manuale diagnostico, dove tutto è catalogato: la ricollocazione mostruosa e faustiana del Nerd all'interno del tessuto sociale; la nascita delle nuove élite imprenditoriali californiane della Silicon Valley; lo scontro a perdere dei vecchi padroni del mondo contro gli imperi computazionali dei nativi digitali; lo spegnersi degli impulsi edonistici dei nuovi yuppies in felpa, sostituiti da un'inedita frigidità esistenziale; la deflagrazione delle dinamiche relazionali (e classiste e sessuali) proprie dei college privati americani, oltre i muri delle università, e dentro il quotidiano personale e lavorativo di ogni fascia demografica.
La maniera in cui lo script di Sorkin serve davvero l'approccio da neurochirurgo delle immagini di Fincher, si coglie però nel lucido lavoro di dissezione che The Social Network applica alla mente rettilea del suo eroe, dei piccoli parassiti attaccati simbioticamente alla sua cancerosa figura - e di riflesso dell'umanità intera. L'epica base di tutta la narrativa americana è un'epica dell'autodannazione, e quella di Mark Zuckerberg sviscera la nevrosi di un personaggio tra il patetico e il vampiresco, un Charles Foster Kane del Sesto Potere in grado di anticipare, predatorio, le ossessioni annidatesi nel subconscio della connettività e dei flussi di informazione. Un new world order, quello da lui battezzato, indistinguibile dall'immenso corridoio di un'accademia privata ed elitaria, i cui feroci rituali di inclusione-esclusione sono ora traslati sulla Persona online – entità sì artificiale, ma depositaria di quel capitale di popolarità costituente la nuova valuta nell'era della messa a mercato del privato.
L'accentramento di questi flussi nelle mani di pochi miliardari, avremmo imparato col tempo, è questione intrinsecamente politica; ma la lettura del film al riguardo è volutamente interiore, individualista, masturbatoria come la mente del suo Uomo dal Sottosuolo. Attorno alla psiche dell'algoritmo umano Zuckerberg, iperstizione vivente auto-generatasi (chi è? da dove viene? cosa vuole davvero?) capace di spingere all'ultimo stadio le nuove tecnologie del controllo, decadono e si riassemblano i rapporti umani del ventunesimo secolo.
Il film inizialmente bollato come la cosa più vicina a un lavoro su commissione per David Fincher è quindi semmai il suo testamento teoretico: il discorso è sempre quello dell'identità, dell'immagine, e del mostrarsi e dissimularsi attraverso di queste. L'algoritmo-Zuckerberg è presentato come un grado zero dell'umano, anello di congiunzione con quella Macchina di cui sembra quasi un'emanazione inconsapevole – e che continua a servire, dietro una fragile maschera di filantropia. In apparenza, il suo Facebook restituisce agli individui una sorta di arbitrio sulla narrazione di sé stessi - ma c'è differenza tra i vecchi mogul dell'informazione centralizzata, e quelli moderni della liquidità? È qui che il cerchio si chiude, dieci anni dopo, ancora sul succitato Quarto potere. E sul filo trasparente che da Zuckerberg torna all'altro grande magnate della comunicazione al Cinema, convitato di pietra in nero e bianco troneggiante sull'ultimo stupendo film del regista, ancora dedicato ad apparenza, informazione, manipolazione.
Dieci anni dopo The Social Network, acquisire il controllo delle immagini e delle narrazioni non è più l'ambizione segreta di un giovane vampiro, ma l'ultima via di fuga di un outsider sconfitto. L'artificio sistematico operato sul reale, in questo caso non dai social media, dai blog o dalla stampa, ma dai film stessi (da Mank su Herman Mankiewicz, da Quarto potere su William Randolph Hearst, da The Social Network su Zuckerberg), arriva agli occhi del regista maturo non come mortifero esercizio di dominio, ma come arma di rivalsa – ultima chiamata per astrarsi dalle maglie brutali e fasciste dell'impero americano, di cui il vecchio e triste Mank è stato utile giullare. Dove il 2010 si apriva sulla voracità di Zuckerberg, invasato dall'urgenza isterica di assimilare e possedere l'altro-da-sé nella persona disperata di Erica Albright, il 2020 è un amarissimo commiato di addio; e la fame di storie e vite e immagini è diventata saturazione, nausea. Ma ripudiare il racconto deformato e deformante del Cinema non è possibile, neanche per denunciarne le contraddizioni: si può solo provare a riappropriarsene, come fa Mankiewicz, dopo averlo per decenni asservito a un potere senza volto. Strumento di controllo come di liberazione, è l'unico padrone in cui Fincher ancora creda.