A proposito di Mank. Il diritto di mentire
Le bugie lecite di David Fincher e la repulsione-attrazione verso Orson Welles
«Citizen Kane non rappresenta nessun avanzamento in quanto a tecnica cinematografica, ma una regressione: l’unica differenza è che tutti gli espedienti sono stati gettati in faccia allo spettatore in una sola volta. (...) I trucchi dell’illusione devono sempre rimanere nascosti per favorire il naturale emergere dell’illusione stessa».
Otis Ferguson, Welles and His Wonders
La famosa stroncatura di Otis Ferguson di Quarto potere nel 1941 si basava su un presupposto per lui fondamentale: il cinema non deve mai mostrare il suo inganno. Non bisogna essere in grado di sbirciare dietro la tenda del demiurgo. David Fincher invece la pensa in un altro modo: il cinema mente, soprattutto quando parla di cinema. Non è il solo, perché una strada possibile dell'immagine americana oggi è proprio questa, provare a ricostruirsi, parlare di sé, inscenare la propria Storia falsandola. Lo sta facendo James Franco con la sua operazione di riscrittura ambiziosa e spericolata, volgare, quindi irresistibile: così è The Disaster Artist (2017) sulla vita del peggiore regista di sempre dopo Ed Wood, ovvero Tommy Wiseau interpretato dallo stesso Franco. Ecco, Wiseau che è un millantatore, ha un passato ignoto, gira scene ridicole, qui diventa “artist”: del disastro, ma pur sempre artista. L'orribile diventa anche imperdibile. E la prima del suo assurdo The Room dona al film lo statuto del cult. Ma Franco fa di più, e peggio: riscrive perfino Jules et Jim in The Pretenders (2018), per interposti e fallimentari personaggi, e resta in campo in prima persona in Zeroville (2019), storia di un nerd che fa il montatore nella New Hollywood, recando una scena di Un posto al sole tatuata sulla nuca. Qui Franco spicca il suo folle volo di Icaro: rimonta la sequenza del film di George Stevens con il ballo tra Montgomery Clift e Liz Taylor, inserendovi addirittura se stesso. La storia del cinema è, appunto, una storia: come ogni storia si può falsificare.
La gemmazione della menzogna percorre in misura minore, o più sotterranea, molti altri titoli: era davvero così Dalton Trumbo ne L’ultima parola di Jay Roach? E va creduta la forma della rivalità tra Bette Davis e Joan Crawford nella serie Feud? Sono forse plausibili le Hollywood ricostruite dai fratelli Coen in Barton Fink e Ave, Cesare!? Solo alcuni esempi. Certo, naturalmente, a confronto con questi il Mank di Fincher si macchia di una lesa maestà: sbriciola la figura di Orson Welles nella costruzione di Citizen Kane, dando la gloria allo sceneggiatore Herman J. Mankiewicz, e per giunta lo incarna per pochi minuti in un personaggio superficiale e risibile.
E allora? Allora, a ben vedere, l’operazione condotta con Mank non è poi tanto diversa dalla sostanza della filmografia fincheriana, in cui si inserisce con coerenza: inscenare la nascita di Facebook con una costruzione narrativa alla Rashomon non è più “grave” di così, anche se The Social Network toccava il business, non il cinema, e i capitani d’industria non si rivoltano come i cinefili. Ancora, l’inganno che sta alla base di Gone Girl ci faceva credere a una scomparsa che non c’era, violando apertamente il patto implicito nella costruzione di un giallo, ovvero dare allo spettatore tutte le carte per leggere la situazione e fare un'ipotesi.
Queste, si dirà, sono violazioni più piccole di Mank, che si conclude inscenando un finto discorso apicale della carriera di Mankiewicz. Prima di dirlo, però, si può forse pensare che tutte le “scorrettezze” fincheriane riguardano un’unica grande convinzione: il diritto di mentire del cinema. D'altronde il titolo è già monco, non Mankiewicz ma Mank, e Gary Oldman non cerca esattamente la mimesi scientifica con il personaggio ma preferisce sovrapporsi ad esso, creando un “altro” Mank, un'interpretazione personale, un'ipotesi, una lettura. Mank è un grande film anche per questo: perché inscena bugie, versioni parziali, opinioni, e racconta quindi di una contraddizione alla base. Fincher sembra nutrire nei confronti di Welles un sentimento di repulsione-attrazione. Nel ricomporre la genesi di Quarto potere si mostra anti-wellesiano, sposando la tesi di Pauline Kael, ma allo stesso tempo gira un film alla Orson Welles: le trovate registiche, le “wonders” wellesiane fa di tutto per riprodurle. È una contraddizione fertile, che dice di come (anche) un grande autore può essere combattuto, diviso, lacerato. Odiare-amare Welles. Chissà se piacerebbe a Otis Ferguson.