Big Eyes
Burton torna al biopic con un'opera animata da una passione sincera, narrata egregiamente ma troppo ancorata ad un'espressione banale dell'emozione
Superficie e traccia impattano nello spazio claustrofobico della cornice. Cornice di tela, quadro, inquadratura, sezionamento. L’oggetto della visione assurge ad emblema dell’amputazione dell’esperienza sensibile, spazio del visibile come squarcio baluginante, sgorgante fluido corporeo, lacrima che scivola sulla pelle negli istanti che precedono il suo infrangersi sul terreno.
Sotto i riflettori, stralci di materia organica eretti ad interfaccia inorganica tra testo e contesto, tra stimolo e reazione, tra controllo dell’autore e presunta libertà di scelta – tra accettazione incondizionata, analisi costruttiva, decostruzione, ricostruttiva – dello spettatore.
Data la posizione privilegiata da cui parte in tale dialettica, l’autore ha il dovere morale di consentire al gioco di configurarsi come paritario, ovvero deve fare in modo che la sua mossa sulla scacchiera abbia la stessa prospettiva di incidenza e autorevolezza della contromossa di chi poi risponderà, nonostante sia stato il primo a dare inizio alla partita. Si è consapevoli, a ogni modo, che pensare al testo come terreno di incontro in cui queste due forze sono implicate in egual misura e uguale “potenza di fuoco” risulti improponibile, utopistico e naïf. Ma ciò che l’autore può di certo mettere in atto, e così rendere l’incontro meno impari possibile, è evitare categoricamente l’ammiccamento allo spettatore, evitare di forzare la sua sospensione iniziale tramite strizzatine d’occhio, pacche sulle spalle, facili sentimentalismi attivati da un semplicistico ricorso a un sterile compiacimento di chi si trova di fronte all’opera, cavallo imbrigliabile col più agevole dei lazi: il facile sentimentalismo di due grandi occhi di bambina in lacrime.
Con Big Eyes Tim Burton si riaffaccia al biopic vent’anni dopo la bella e fortunata esperienza di Ed Wood. Ed è un ritorno caratterizzato da un pathos e una passione sincera, attraverso i quali riesce a mettere in scena un racconto che, da eccelso cantastorie quale è, risulta egregiamente narrato.
Il film ripercorre la storia dei coniugi Keane: lui è un “artista” paesaggista, impostore di professione che, presosi la paternità e i meriti delle opere della moglie, divenne ricco e famoso riproducendo in serie le opere pittoriche della consorte e riempiendoci gli scaffali dei supermercati; lei è una casalinga americana degli anni ’50 e talentuosa pittrice della domenica, una donna dal passato e dal presente infelice
La costruzione drammaturgica si sviluppa seguendo l’ordine classico. Si delinea come una fiaba che vede nel primo atto l’incontro tra Keane e Margaret, un incontro folgorante che sembra inarrestabilmente destinato a un epilogo da “e vissero tutti felici e contenti”, fino a quando, nella seconda parte, le strategie egotiche del marito pongono la pittrice di fronte alla realtà dei fatti: ciò che sta vivendo è tutto fuorché il suo sogno d’amore, quell’uomo non ha reso la sua vita finalmente serena, bensì ha contribuito a gettarla di nuovo in una spirale di solitudine, dolore e insoddisfazione. E l’unico modo per uscire da questo interregno è allontanare per sempre il marito, riconquistare il proprio controllo su se stessa in quanto individuo, artista e, soprattutto, donna.
La vera redenzione per Margaret non è perciò quella ingannevole e coercitiva del matrimonio con Keane, bensì il suo processo di autodeterminazione in un mondo ancor più patriarcale di quando non lo sia (ancora) oggi. È sempre acceso, dunque, l’interesse di Tim Burton nei confronti del femminismo, prima infuso silenziosamente nelle caratterizzazioni e nello sviluppo drammaturgico, ora aderito anche a livello tematico.
Big Eyes è un’opera che riesce a mantenere sempre alto l’interesse dello spettatore attraverso la sua grande capacità di far ridere e di fare emozionare, e all’incredibile istrionismo di un sempre impeccabile e inquietante Christoph Waltz, cui si affianca la perfetta interpretazione di Amy Adams. Il risultato è un buon film che però parte, per stessa ammissione degli autori (Scott Alexander e Larry Karaszewski) e del regista stesso, dal discutibile assunto per cui «tutto ciò che emoziona è da considerarsi arte». Così, come le opere kitsch della protagonista Margaret Keane, con le sue bambine dai grandi occhi offuscati di lacrime, anche il film di Tim Burton sembra affidarsi spesso a una ricerca dell’attivazione emozionale – didascalica e semplicistica – dello spettatore, nella convinzione che basti ciò a guadagnarsi un qualche non meglio specificato status artistico. Si cade così nella trappola della banalità dell’emozione facile, la quale pone, nel fruitore, le basi per una possibile analisi superficiale, per un’accoglienza inerte, priva di costrutto, sintetica. «Dove Picasso dipinge la causa, Repin dipinge l’effetto. Repin predigerisce l’arte per lo spettatore, in modo da risparmiargli la fatica e fornirgli una scorciatoia per arrivare al piacere dell’arte aggirando quanto è necessariamente difficile da assimilare nella vera arte». Il succo del rapporto tra autore e fruitore, veicolato dal testo, è riassunto egregiamente dal dualismo avanguardia-causa/retroguardia-effetto teorizzato nel saggio-manifesto Avant-Garde and Kitsch. Clement Greenberg cita Repin, ma non si fa troppa fatica a sostituire il suo nome con quello della Keane e, a tratti, anche con quello di questo Burton.