The Legend of Tarzan -
Yates firma un'arida riproposizione del personaggio, investito del ruolo di supereroe e intrappolato in un tono dark che ne soffoca ogni senso della meraviglia
Grazie ad un’eredità perpetuata con decine di film e centinaia di storie collaterali, quella di Tarzan è una figura che ha attraversato in discreto silenzio tutto il Novecento, portando avanti il sincretismo tra natura e civiltà, istinto e ragione, che contraddistingue l’animo degli esseri umani. Tuttavia di questo scisma poco rimane ne The Legend of Tarzan, film figlio del suo tempo che trasforma il personaggio di Edgar Rice Burroughs nell’ennesimo supereroe.
Risolta la formazione dell’eroe in pochi, insipidi flashback, il film di David Yates sembra imporre in ogni immagine un’interpretazione tragica e sofferta del personaggio, senza però che ci sia un vero interesse a raccontarne le fondamenta, le origini di quest’angoscia. Il risultato è l’ennesimo look oscuro dal sapore posticcio, l’ennesimo eroe afflitto affianco al quale non può mancare la fedele spalla comica, ad alleggerire il tono quel tanto che basta. The Legend of Tarzan prende così il peggio dagli opposti filoni della Marvel e della DC, cercando un dialogo impossibile tra l’atmosfera dark ereditata dal Batman di Nolan e le battute dissacranti tipiche dei Marvel Studios. Con quest’impostazione di base a poco serve la sovrastruttura post-colonialista; certo Tarzan e gli animali della giungla riescono assieme a scacciare il crudele uomo bianco, appianano i conflitti e si ritagliano dal freddo Ottocento ormai in chiusura un angolo utopico nel quale vivere la loro unione, ma il tutto resta al livello di patina, veste ideologica portata avanti più per senso del dovere che per autentica urgenza narrativa. Anche il dialogo tra Tarzan e il mondo animale (e quindi tra uomo e post-uomo digitale) non regala alcuna sorpresa, e fa rimpiangere piuttosto l’intelligenza e lo spessore sì autenticamente politico della nuova saga del Pianeta delle scimmie.
Considerato ciò, l’aspetto forse più interessante di questo revival – evidentemente fallito ma che ha poco senso continuare a demolire – sta forse nell’imbarazzo con cui il film si avvicina agli elementi più naif della tradizione, come ad esempio l’urlo di Tarzan. La creazione di Burroughs subisce per certi versi lo stesso fato di Superman, altro personaggio solare ricondotto ad una dimensione dark; in entrambi i casi gli elementi più ingenui e bonari e tipici di una narrazione d’altri tempi ormai pressoché storicizzata, tutti gli aspetti che più parlano il linguaggio della meraviglia e dell’infantile sospensione dell’incredulità, vengono in qualche modo disinnescati, ridimensionati. Sempre di più sono i film che rifuggono l’idea dell’artificio in nome di una maggior immediatezza, di un senso di realtà che possa in qualche modo giustificare il fantastico e ricondurlo all’interno di binari accettabili per lo spettatore contemporaneo. Ma forse l’imbarazzo di certi blockbuster a restituire il sense of wonder dei propri racconti è solo un tassello di un riassetto più grande, una più profonda ridefinizione ontologica che il cinema (in primis americano) sta vivendo in relazione allo statuto contemporaneo dell’immagine, alla sua (in?)capacità di creare mondi altri. La giungla algida proposta da The Legend of Tarzan, l’assenza di ogni meraviglia e senso dell’avventura, la freddezza perenne e azzurrognola che avvolge l’intero film, tutti questi aspetti ci parlano allora di un cinema che rifugge la creazione fantastica e l’infantile fuga dalla realtà, scartati sull’altare di un realismo chimerico e sempre più arido.