Birdman
Tra riflessi pop, sogni a occhi aperti e irredimibili desideri di riconoscimento, arriva il nuovo film di Iñárritu.
Bisogna partire necessariamente dal corpo in volo di Michael Keaton, protagonista assoluto di Birdman - The Unexpected Virtue of Ignorance di Alejandro González Iñárritu . Ora più che mai questo sembra un film incollato alla pelle e alla carriera dell’attore, in un gioco di riflessi che finisce per confondere i piani della realtà: protagonista è infatti una celebrità in declino, famosa negli anni ’90 per aver dato corpo al supereroe Birdman, e ora in cerca di una seconda occasione con l’adattamento del classico di Raymond Carver, Di cosa parliamo quando parliamo d’amore. Il cortocircuito tra Batman e Birdman, tra il personaggio Riggan Thomson e l’attore Micheal Keaton, si rivela, fin dalla carta, l’intuizione vincente del film.
Se da una parte il regista messicano vorrebbe realizzare la sua opera più intima, dall’altra avvolge la pista narrativa in una scatola-mondo luccicante e glamour, dove lunghi e sontuosi piani sequenza seguono i corpi dei vari personaggi. Tutto Birdman vive all’insegna di queste due tendenze eterogenee che finiscono però col rispecchiare il personaggio stesso di Riggan Thomson. La sua è una figura sempre in bilico tra desiderio di quiete e fame compulsiva di potere e celebrità. E’ come se la stessa messa in scena compiaciuta e laccata di Iñárritu volesse trasportarci all’interno di un mondo sintetico e ultra-pop: qui l’ansia di apparire a ogni costo e la nevrosi del non esser dimenticati sono divenute condizioni esistenziali, patologie irredimibili di una società fluida e vischiosa. Nessuna stasi, ma un continuo, frenetico movimento, come se Thomson e la stessa macchina da presa di Iñárritu avessero paura di scomparire. Il piano-sequenza, cifra stilistica del film, funge da anticorpo, da innesto per far(ci) sentire ancora vivi. Ma è un innesto artificiale e ipercodificato, che non può lasciare spazio al caso, perché deve controllare ogni cosa. Il movimento di macchina diviene l’ancora, il salvagente indossato da Iñárritu per aderire al microcosmo disfunzionale di Riggan Thomson.
Con queste premesse Birdman deve inevitabilmente rinunciare a qualsiasi ipotesi di autenticità per raccontare un mondo ridotto a simulacro, luci al neon e patine digitali. Quella che è la cifra stilistica di Iñárritu, ovvero la mania compulsiva di controllare ogni aspetto del set, fino a rendere i propri film oggetti imbalsamati all\'interno di un\'immagine-struttura, si reitera in questo film. Ma, per una volta, sceglie un soggetto che, piaccia o non piaccia, aderisce perfettamente al suo stile. Il teatro in cui si svolge gran parte del film diviene il polo geografico della mente di Riggan Thomson, popolata da stretti corridoi, strambi personaggi carenti d’affetto, camerini sfasciati e palcoscenici in cui cercare disperatamente l’approvazione altrui. Ecco allora che la macchina da presa si incolla al corpo del suo protagonista, seguendolo nello sfacelo di immagini e deliri che costituiscono la sua stessa identità. Un’identità frantumata dove viene rilanciata fino al parossismo l’antica e abusata differenza tra essere e apparire, tra la vita e il suo doppio. Niente di originale, certo, eppure in questo girotondo regressivo, in questa giostra fatale e perversa, è ancora il teatro a configurarsi come luogo di moltiplicazione libidinale, gioco straniante dove reinventare le infinite possibilità della vita stessa.
Il film di Iñárritu vive di contraddizioni inconciliabili: all’accusa sensatissima di essere costruito fino al midollo, didascalico in ogni sua svolta narrativa, Iñárritu risponde furbissimo con l’(in)sincerità del film-cervello. Ne esce fuori un’opera triste e perfino buffa, perché, in fin dei conti, parla di un uomo fagocitato dalla stessa immagine che ha prodotto. Tutto intorno a Thomson è chiasso e frastuono, tic mediatico e chiacchiera vana. La stessa colonna sonora del film, frenetica e sincopata, è come una scheggia indelebile situata nel cervello di Thomson: la tanto agognata libertà, il riscatto esistenziale divengono sogni a occhi aperti, ipotesi di volo suggerite da una voce nella testa.
Birdman si pone insieme come metafora studiatissima sulla solitudine e la celebrità, come commedia nera ambientata nel cervello teatrale di una ex celebrità, ma anche come possibilità icariana di una nuova caduta-rinascita. Tutti i personaggi che salgono su questa giostra sembrano vasi comunicanti, arterie e possibilità di dialogo tra Thomson e se stesso: dalla performance eccentrica e irresistibile di Edward Norton, che interpreta un attore che riesce a essere autentico solo sul palcoscenico, alle donne della vita di Thomson (su tutte Naomi Watts, uno dei pochi personaggi veri all’interno di una danza di burattini).
In definitiva Iñárritu firma il suo film più riuscito, dove l’inautenticità che pesava su tutti i suoi lavori precedenti diviene lo strumento di uno scarto, quello tra la vita e la sua inevitabile, becera imitazione. Tra un primo tempo tutto in costruzione e un secondo tempo che quando detona rischia sempre di perdere il suo smalto, Birdman riesce a funzionare, seppur lontano da quel dolore autentico che non può essere di casa in questo cinema.