Revenant - Redivivo
In un cinema inteso anzitutto come perfomance personale, Iñárritu va alla fine del mondo per cercare la Natura, Dio e il cuore avido degli uomini ma quello che trova è soltanto sé stesso
Di ferro forgiato è la veste umana,
Un’ignea forgia l’umana forma,
Ermetica fornace il volto umano,
Sua avida gola è il cuore.
William Blake, Canti d’esperienza
Dio, la natura, l’uomo. Una trinità ancestrale, all’interno della quale confluiscono in lotta tra loro la metafisica dello spirito e la brutale fame della carne. Qui si fronteggiano venerazione e desiderio, contemplazione e avarizia, ascendenza e consumo. Da una parte vive lo spirito capace di unirsi in sinergia e rispetto con il mondo naturale, dall’altra cresce il desiderio che tutto calpesta pur di placare i propri bisogni; da una parte la vendetta bestiale che nata come ricerca di sé diventa giudizio divino, dall’altra la gola umana che come fornace solo brucia e divora, nella continua avidità di consumare ogni cosa.
Hugh Glass e John Fitzgerald sono i due estremi della dicotomia su cui Alejandro González Iñárritu ha costruito il suo Revenant – Redivivo, epopea di sopravvivenza vestita con i panni del western che nulla però ha a che vedere col genere. L’intento del regista messicano e del suo direttore della fotografia (e coautore de facto) Emmanuel Lubezki è piuttosto quello di immergersi nella natura più estrema per rappresentare i due volti dell’animo umano, rigidamente incarnati dai protagonisti in lotta fra loro. Cresciuto assieme agli indiani e sopravvissuto soltanto grazie ad una compenetrazione con la natura stessa (pelli di orso a mo’ di veste, una carcassa fresca di animale come letto), l’esploratore Grass è infatti quanto di più lontano si possa immaginare dal traditore Fitzgerald, subdolo e terrigno cacciatore mosso da un’avidità irrefrenabile. Attorno a loro si apre a dismisura il vuoto dei grandi spazi americani, un palco gelato su cui proiettare attraverso un regime di allucinate inflessioni malickiane l‘incombente sguardo del divino.
Questo sarebbe, almeno nella teoria di Iñárritu, l’intento di Revenant, e qualcosa di tutto ciò riesce anche ad esserlo (soprattutto riguardo la bramosità parossistica di Fitzgerald, restituita da un fenomenale Tom Hardy). Tuttavia nei fatti l’autore di Birdman va a perdersi ai confini del mondo in cerca del cinema ma quello che trova è soltanto sé stesso; scava nella natura per 150 interminabili minuti, pensando di arrivare a Dio e a quella fornace famelica che il cuore umano, ma la sua indagine è condannata a fallire. Perché se riprendi ogni cosa affinché sia anzitutto specchio della tua bravura, non potrai andare oltre i ristretti confini del tuo ego.
Considerandoli in sequenza, Birdman e Revenant sono due film che hanno del paradossale. Il primo, che vorrebbe essere un pamphlet sull’assenza di autenticità nel mondo contemporaneo, decide di nutrire il proprio virtuosismo di trucchi e interventi digitali atti a conservare la pretenziosa illusione del suo infinito piano sequenza. Il secondo, che insegue l’immedesimazione fisica con ogni mezzo (dalle distorsioni fisiche del grandangolo al sangue e alla terra gettati in camera, fino allo sguardo in macchina), si rivela invece un film posticcio e costruito, vittima di un esasperato controllo formale. Soffocata ogni libertà, dentro Revenant resta soltanto l’ossessione che priva l’immagine di tutto il suo ossigeno, bruciato sull’altare della perfezione estetica con un’avidità non lontana da quella dello stesso Fitzgerald.
Gli esiti dell’ultimo Iñárritu insomma sembrano davvero creature a due teste, scissioni schizofreniche in cui una delle due parti cerca in ogni modo di soffocare l’altra e di ribadire così la propria superiorità.
Affiancato da uno dei migliori operatori viventi, Iñárritu appare di conseguenza come un regista mosso sempre più da un istinto di rivalsa personale, come se la tecnica e l’elaborazione estrema dovessero andare a certificare la sua assoluta paternità dell’opera, il suo stato di visionario maestro del cinema. E poco importa se a pagarne le conseguenze è il film stesso, umiliato da un autore che lo guarda dall’alto in basso e lo manipola come strumento di gloria personale, poco importa se narrazione e personaggi devono svuotarsi e inchinarsi alla dittatura del movimento di macchina. Il limite più evidente di questa logica disgraziata lo paga Leonardo DiCaprio, attore appiattito e privo di personaggio che si presta ad affrontare prove degne del peggior survival show; qui si confonde il cinema con la performance fisica, si scambiano il ringhio più intenso e la tosse più profonda per attestati di bravura.
Ma oltre gli aspetti più materiali di un film stancante, prolisso, ripetitivo nelle sue pretese così urlate, il limite profondo di Revenant e del suo autore è il rapporto con il paesaggio. Sia che la si veda come cardine del rapporto filosofico tra Dio e uomo, sia che la si consideri come elemento mitico all’interno della tradizione iconografica del cinema americano, la natura è paradossalmente la grande assente dello sguardo di Iñárritu, che si approccia alle terre selvagge nel più arido dei modi. Privo di afflato epico e di senso dell’avventura, Revenant fallisce anzitutto come cinema di genere, appesantito com’è di ricorsi metafisici e soprattutto incapace di rapportarsi con lo statuto mitologico, e quindi di genere, delle terre in cui si trova ad operare. La natura non diventa mai autentico personaggio della narrazione, ma appare piuttosto vittima di uno sguardo che cerca di piegarla ai dettami del virtuosismo. Herzog e Aguirre, probabilmente presenti nella mente di Iñárritu, sono lontani tanto quanto il questionare metafisico di Malick, scimmiottato con qualche ripresa ascendente che pretende di interrogarsi sullo sguardo di Dio ma si limita a sottolineare la vacuità dell’occhio del suo autore.
Dentro Revenant si agitano le intenzioni di Coppola, Tarkovskij, Skolimowski, ma pur pensando a questi nomi Iñárritu resta un regista privo di una propria visione di cinema, privo di un’ossessione che non sia l’ennesimo ricorso tecnico (che beninteso non diventa mai riflessione sul linguaggio stesso del cinema). Di conseguenza Revenant è il film di chi si intrufola di nascosto alla festa degli amici più grandi e fa di tutto per farsi notare, per impressionare a prima vista. Certo il suo talento tecnico non può essere discusso, e in diversi (pochi) momenti il film trova in questo mestiere la scintilla per accendersi e sembrare grande cinema, ma sono attimi, ombre fugaci. Quel che resta è un racconto barocco, estenuante, che scambia la ricerca di Dio per la fabbricazione di idoli d’oro.