Black Sea

Appesantito da una retorica politica ridondante e invasiva, il film di Kevin Macdonald sembra troppo interessato ad essere metafora di altro per funzionare come genere

Nel mondo di sopra naviga quel che resta della Flotta russa del Mar Nero, parte integrante di quella presenza militare attiva attorno alla Crimea e coinvolta in una guerra di posizione e invasione territoriale che sembra sgocciolare fuori dalle crepe del Novecento più buio. Nel mondo di sotto riposa un relitto nazista affondato da più di cinquant’anni, un tesoro in lingotti d’oro contenuto nella sua pancia di metallo. Tra l’incudine e il martello una sporca dozzina di marinai inglesi e russi, una ciurma di ex dipendenti mandati per strada da eserciti noncuranti e multinazionali disinteressate. Per vincere il loro riscatto proletario e soffiare l’oro sotto il naso dei padroni dovranno immergersi nelle acque del Mar Nero, affrontare il gelo degli abissi e resistere alle lusinghe della lotta per la sopravvivenza. Peccato però che Kevin Macdonald non sia Aldrich, e Black Sea abbia troppo del pamphlet politico insistito e retorico per funzionare come film di genere credibile e solido.

Certo, con la polarizzazione della produzione hollywoodiana (che sempre più si concentra su blockbuster multimilionari o piccoli lavori “indie”) e la dissoluzione dei generi all’insegna dell’azione generale, oggi di avventure autentiche al cinema se ne vedono ben poche. Personaggi brutti, sporchi e cattivi impegnati in imprese impossibili sono ormai merce rara, per questo dispiace vedere Black Sea buttare via così le sue carte. Kevin Macdonald infatti aveva un ottimo soggetto ma si approccia alla materia nel peggiore dei modi. Per tutto il film tradisce l’intenzionalità autoriale di chi vuole “elevare” il genere per mandare “messaggi”, inconsapevole o incurante del fatto che questo, quando ben fatto, trova in sé una sua morale intrinseca senza che servano iniezioni esterne di retorica.

Più che a realizzare un solido racconto di avventura e sopravvivenza brutale, Macdonald è più interessato a trasformare il suo film in una grossa metafora politica. Ecco così che la discesa negli abissi di un gruppo di “scarti sociali”, uomini di mezza età sfruttati dal sistema e poi sputati quando ormai inutili, diventa l’occasione per mettere in scena quella che sembra davvero un’allegoria del fallimento socialista e delle istanze più progressiste e ugualitarie dell’animo umano, vittime degli egoismi e delle violenze sorte di fronte quella ricchezza che spiana la strada alla dittatura, all’assenza di un dialogo che non sia minacce e ordini. A farsi carico della metafora è soprattutto Robinson, il personaggio interpretato da Jude Law (comunque in parte e convincente in un ruolo così duro e sofferto), capitano improvvisato secondo il quale tutti dovranno ricevere la stessa parte di oro in base ad una divisione equa che sia da lezione ai padroni che li hanno sfruttati. Tuttavia, con la discesa nell’abisso e la riscoperta di quella memoria storica racchiusa nelle vestigia naziste, i buoni propositi svaniscono in una lotta fratricida che rischia di portare solo morte.

Per quanto classico l’abisso come inconscio collettivo funziona e convince, come anche l’influsso quasi fantasmatico che l’incubo nazista sembra avere sulla psiche dei personaggi. Del resto il problema non è la dimensione politica in sé (ben venga anzi un cinema arrabbiato come questo) ma il modo in cui tale intenzione venga trattata, ovvero con una retorica sovrabbondante e sottolineata che uccide ogni genuinità. Black Sea diventa allora un film troppo programmatico per appassionare davvero, un cinema che non riesce a respirare tra le strette maglie delle sue tesi, che per essere dimostrate finiscono per mettere in secondo piano ogni altro aspetto del racconto.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 22/04/2015

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