Bloodline
Tagliavini debutta nel lungo con una miscela esplosiva costruita con tutti gli stilemi tipici del genere
Raramente succede di trovare un regista che, pur limitato dalla difficoltà nel reperire il necessario per iniziare e portare a termine un film dell’orrore in Italia, riesca a realizzare una pellicola in grado di spaziare e di muoversi all’interno del genere a cui appartiene lasciandosi ispirare dalla storia del cinema orrorifico tout court senza però rinunciare a tocchi di originalità e divertissement personali. Edo Tagliavini, dopo diversi cortometraggi realizza Bloodline, suo primo e per ora unico lungo (escludendo i segmenti di film antologici, come i vari P.O.E. e Sangue Misto, a cui ha preso parte).
Bloodline racconta la storia di Sandra e Marco, rispettivamente giornalista e cameraman di una piccola web tv, inviati sul set di un film pornografico per un servizio. Le riprese del film hard a cui assisteranno si tengono, malauguratamente, presso una villa dove quindici anni prima la sorellina di Sandra venne brutalmente uccisa da un serial killer chiamato Il Chirurgo. Sul set a luci rosse, la giornalista si troverà costretta ad affrontare il passato, e a fronteggiare, in un turbinio di apparizioni spettrali e fantasmagoriche, Il Chirurgo stesso, deciso a mettere in atto una nuova carneficina.
Bloodline è in sostanza un film a incastri, un meccanismo costruito alla perfezione in cui trovano spazio le componenti principali che contraddistinguono i vari filoni del genere orrorifico. All’insegna del più limpido e puro intrattenimento, Tagliavini realizza un perfetto esempio di cinema postmoderno in cui si fondono alla perfezione elementi derivanti dall’universo gotico (la villa, gli spettri, l’importanza di un passato traumatico e difficile da dimenticare), caratteristiche tipiche dello slasher a metà tra Venerdì 13 e Dieci piccoli indiani, e tratti dello zombie-movie romeriano in cui la putrefazione della carne umana e il contagio sono i punti cardine. Nonostante sia tutto già visto, il perfetto miscelarsi del materiale girato da Tagliavini riesce a divertire lo spettatore che, pur riuscendo a intuire e anticipare le mosse dei personaggi (buoni e cattivi) non è mai in grado di immaginare le pieghe che potrà assumere la vicenda, imprevedibile fino ai titoli di coda. In questo pastiche in cui il regista si diverte a richiamare quelle che probabilmente sono le sue influenze principali manca un discorso critico infilato con forza e spesso fuori luogo in molti altri prodotti del genere. Ma quella del regista non è una mancanza involontaria o una carenza; pare piuttosto una scelta consapevole fatta per non caricare un film già denso di contenuti visivi e per allontanarsi da neonate tendenze tipiche del cinema indie che inseriscono una critica sociale e politica spesso completamente avulsa dal contesto, ma tanto cara ai cinefili dell’era contemporanea. Il regista destina il suo prodotto, scelta questa azzeccata, a un pubblico meno pretenzioso, magari anche meno preparato sulla storia e sulla tecnica della settima arte, ma assolutamente non di seconda fascia e soprattutto bisognoso e meritevole di un film che possa garantire un’ora e mezza di sano e innocente intrattenimento. In questo tacito accordo fra il regista e il pubblico (o meglio, il suo pubblico), Tagliavini continua, forse involontariamente, un percorso vecchio più di trent’anni fatto di importazione e pastorizzazione di modelli e figure eteroctoni, senza per questo sacrificare la propria fantasia ma lasciandosi anzi andare a picchi di inventiva che spingono la pellicola a contraddistinguersi da altri prodotti prima nei festival e poi nei mercati, europei e non solo, garantendo la sopravvivenza all’intero genere orrorifico che in questo modo, pur tra le mille difficoltà e seppure sempre collocato ai margini, si mantiene vivo e continua a sfornare prodotti di sicuro interesse.