Can che abbaia non morde
L’opera prima di Bong presenta tutte le peculiarità in erba del regista sudcoreano, che tra personaggi miserabili e un utilizzo allegorico dello spazio affronta le divisioni di classe e le problematiche della sua società.
L’attuale distribuzione in sala di Can che abbaia non morde, il primo film del regista premio Oscar Bong Joon-ho, è l’occasione per riscoprire un esordio nel quale si possono oggi individuare con maggior compiutezza - a seguito della visione delle opere successive - tutti gli elementi narrativi e stilistici propri della poetica del regista sudcoreano. Una poetica che si fonda sull’analisi della società sudcoreana (ma capace di oltrepassare i confini nazionali), sulle disuguaglianze di classe e sulle aberranti degenerazioni che esse possono provocare nell’animo del singolo.
Questioni, queste, che si possono appunto ritrovare anche in Can che abbaia non morde, dove il protagonista Ko Yun-ju (Lee Sung-jae) sfoga la sua frustrazione per il non riuscire a ottenere una cattedra come professore prendendosela con alcuni cani del suo condominio, “colpevoli” con il loro abbaiare di non permettergli di concentrarsi sui propri problemi. Ha inizio da qui una grottesca vicenda nella quale si susseguono situazioni, personaggi e colpi di scena attraverso i quali il regista esprime le proprie lucidissime e ancora oggi attuali idee. Perché la prima cosa che colpisce di Can che abbia non morde, a distanza di oltre vent’anni dalla sua realizzazione, è proprio la sua continua attualità, se non addirittura una natura premonitrice. Bong presenta già da qui un’umanità allo sbando, alienata, annichilita da sistemi capitalistici tutt’altro che sani. Un’umanità di cui, in questo caso, il labirintico e asettico complesso condominiale dove si svolge la maggior parte del film si fa palcoscenico ideale.
Proprio in tale ambiente, con la sua estensione tanto in orizzontale quanto in verticale che permette di passare dal cupo seminterrato all’ampio terrazzo, può dunque prendere vita l’allegoria sulle differenze di classe, vero cuore del film. Il merito della sua riuscita è delle ormai note abilità del regista nel concepire, ricercare e utilizzare le proprie location. Bong riproporrà una simile suddivisione allegorica degli spazi a più riprese nel suo cinema, dal treno di Snowpiercer alla villa di Parasite. In tale contesto ognuno sembra avere un proprio prestabilito ruolo da svolgere, con regole da rispettare a cui però ben pochi sembrano dare importanza. Ed è proprio questa mancanza di disciplina a frustrare ulteriormente il protagonista, che manca il vero bersaglio dei propri guai dichiarando guerra ai cani, simboli incolpevoli di uno stato di benessere che non a tutti è concesso.
Bong ci offre dunque un protagonista difficilmente apprezzabile, che viene posto continuamente alla berlina per il divertimento dello spettatore. Attraverso le disavventure di Ko Yun-ju, però, il regista sembra puntare il dito anche contro quanti con troppa facilità individuano colpevoli sbagliati per le loro problematiche, con l’effetto di non contribuire a un concreto miglioramento della società, sostenendone piuttosto le perverse pratiche. Di ben altro pensiero sembra invece essere Park Hyun-nam, il personaggio interpretato da Bae Doo-na, che da tali dinamiche cerca in più occasioni di sfuggire. Ecco allora che i due personaggi vengono in più occasioni vestiti lui di rosso e lei di giallo, proponendo una contrapposizione che andrà però via via appianandosi fino a quando Yun-ju, comprendendo i propri errori, non apparirà a sua volta vestito di giallo. Il loro, tuttavia, è un percorso che si incrocia solo brevemente, per condurli poi in direzioni opposte, dalle quali emerge l’idea che Bong ha del conformarsi a determinate istituzioni, le quali porterebbero a perdere la propria identità e libertà.
Ci sono dunque tanti elementi e tematiche in Can che abbia non morde, forse troppi. Ma gli esordi, si sa, il più delle volte sono composti da quegli eccessi che ne sono allo stesso tempo difetti e punti di forza, e che permettono al regista di turno di urlare tutte le proprie idee (sul cinema, sulla società, sulla vita). Nel tempo Bong ha brillantemente saputo smussare questi eccessi, divenendo un regista dotato di grande controllo. Tutto ha però avuto inizio da qui, da un primo lungometraggio nel quale dimostra già un proprio linguaggio e la capacità di parlare del suo Paese come del mondo intero ricorrendo a un miscuglio di generi dal quale si sprigiona umorismo, certo, ma anche una forte malinconia.