Possessor
Dopo "Antiviral", Brandon Cronenberg torna con un fanta-horror che guarda ancora una volta al cinema paterno ma lo aggiorna a una contemporaneità cinica e brutale.
A volte è una linea sottile quella che separa l'horror dalla fantascienza. Così come può essere (almeno apparentemente) sottile lo scarto tra due autori e le loro rispettive poetiche. È su questa prossimità e comunanza che si dispiega inevitabilmente il cinema di Brandon Conenberg. Un dispositivo capace di coniugare in maniera perturbante generi differenti e insieme di farsi naturale continuatore di chi con quei generi ha giocato per più di mezzo secolo. Pare quasi il seguito ideale dell'eXistenZ del padre David (e non solo per la presenza di Jennifer Jason Leigh), d'altronde, Possessor, un thriller fantascientifico dalle derive horror aggiornato ai tempi di un tardo capitalismo spietato e cannibale. È qui, mentre multinazionali senza scrupoli entrano nella mente di uomini ignari per eliminare i rivali in affari, che l'esperta sicaria Tasya Voss (Andrea Riseborough) comincia ad accusare i colpi di quello sporco lavoro, perdendo mano a mano il controllo della propria identità e il contatto con una realtà sempre più labile e indefinibile.
Dopo l'esordio di Antiviral è a suo modo ancora con la malattia che torna a confrontarsi dunque Cronenberg Jr.. Questa volta nelle forme di un parassita umanissimo, coi suoi dubbi e le sue paure che, alla maniera di un virus tecnologico dotato di coscienza, entra nel cervello e nel corpo altrui prendendone il possesso e facendolo proprio. Perché è sempre e comunque il corpo a essere protagonista e centro indiscusso dell'universo cronenberghiano, un corpo martoriato, ferito, sanguinante (non pochi e decisamente inventivi i momenti splatter e gore), in costante conflitto con una mente scissa e instabile, senza più il controllo di sé e della propria volontà, ormai incapace di prendersi le responsabilità delle proprie azioni.
Tra body horror e derive psichiche, esplosioni di violenza e deliri allucinatori, il film di Cronenberg si fa così (con le dovute prospettive) quasi una summa tematica ed espressiva della poetica paterna, coniugando in un solo prodotto gli estremi della sua filmografia e costruendo un sanguinoso e grottesco affresco su una società egoista e deresponsabilizzata che ha perso ormai ogni coordinata etica e morale.
Problematicizzando e ampliando il concetto di voyeurismo – un voyeurismo dettato non più dalla patologia ma dal puro interesse economico – e di responsabilità dello sguardo, Possessor conferma così, in un crescendo esasperato dove identità e prospettive si confondono fino a perdersi, la capacità del suo autore di non perdere mai di vista le storture e le derive del suo tempo, facendone per questo ben più di un semplice e scontato epigono del cinema paterno.