Please Baby Please
In un delirio queer fatto di rimandi e suggestioni eterogenee, il film di Amanda Kramer mette al suo centro questioni capitali come fluidità sessuale e identità di genere. Un esperimento affascinante che rischia, però, di cadere in un certo didascalismo.
Un uomo e una donna (Harry Melling e Andrea Riseborough), un gruppo di teppisti, un'idea di mascolinità messa in discussione. Parte da qui, Please Baby Please, opera terza della regista statunitense Amanda Kramer disponibile su MUBI. La storia esemplare di una crisi che è prima di tutto di coppia. Compendio anomalo e allucinato sul modo in cui i generi si guardano e (non) si riconoscono. Uno scontro tra sessi che nel film di Kramer prende la forma di un delirio cromatico fatto di borchie e giacche di pelle, immaginario queer e rimandi al cinema underground. Un insieme di riferimenti e suggestioni dove Stanley Kowalski incontra Tom of Finland, Fassbinder John Waters, mentre Il selvaggio si contamina con Scorpio Rising e West Side Story. Al centro di tutto, aspettative e frustrazioni legate a ruoli definiti, modelli pronti a crollare non appena irrompe – feroce, imprevisto e difforme – il desiderio.
In un'America anni cinquanta filtrata attraverso una patina eighties che, nella sua esibita artificiosità, pare un'emanazione dell'inconscio, il lato oscuro di un intero immaginario da ribaltare e sovvertire, va così in scena un delirio erotico e colorato che frulla assieme (o banalizza?) orientamento sessuale e identità di genere, stilemi del passato e questioni tutte contemporanee. È qui, in questa New York dissoluta, tra poeti beat e caricature di Marlon Brando (Karl Glusman), che si consuma la parabola di un amore idealizzato, destinato a scontrarsi con una realtà fatta di desideri repressi e aspettative frustrate. Un viaggio di formazione anomalo che la regista gestisce maneggiando, con risultati altalenanti, il registro del grottesco, facendo precipitare i suoi personaggi all'interno di una vicenda sempre più assurda e onirica.
Nel suo intento di fare del film un trionfo della fantasia e del desiderio libero da qualsiasi paletto o limitazione, lo sguardo di Kramer, seppur interessante, rischia però di non andare mai oltre la superficie di un'operazione, sì, intelligente e suggestiva, ma che rivela, nascosta tra le pieghe dei suoi dialoghi ridondanti e pontificanti, un certo didascalismo.
Quello che ne viene fuori è così un musical paradossale, con poche canzoni e tante, troppe parole, un'opera apparentemente anarchica attraversata da volti noti (l'apparizione fantasmatica di Demi Moore) e tour de force attoriali (una Andrea Riseborough in costante overacting), ma incapace, in definitiva, di toccare appieno il cuore di quelle immagini desideranti messe con tanta cura in scena.